“Definisco ‘attivismo spirituale’ la postura militante che esplora le implicazioni sociali della spiritualità”. Lo scrive Gloria Anzaldua (1942/2004), scrittrice e filosofa chicana, attivista femminista autrice di una modalità di pensiero, a partire da sé, fluida, relazionale, decoloniale, connessionista, che trae nutrimento dalla compassione (facultad), un acuirsi della percezione in contesti colonizzati di forte oppressione, come è stato per Anzaldua vissuta in una terra di frontiera tra Messico e Texas. Una pratica che coniuga la lotta politica con la ricerca di forme artistiche. “Una diversa tipologia e modalità di conoscenza/consapevolezza (conocimiento) che ricerca indaga e osserva”, con tutti i sensi, per “giungere alla consapevolezza delle interconnessioni tra tutte le cose e acquisire una prospettiva totale”. Conocimiento è uno slittamento di prospettiva che ci mette in grado di “vedere” altre dimensioni della realtà, guardando all’ego dalla sponda opposta, come fosse l’Altro/a. Sospendere l’io conscio, perché “vincolante”, è necessario per reinventare la realtà. Ci si addentra nel territorio del conocimiento quando qualcosa di traumatico ci scuote, ridestandoci con violenza, e la prospettiva abituale di lettura del mondo muta. “Benché doloroso questo smottamento rappresenta il primo passo verso la guarigione”, scrive Anzaldua. Attivismo spirituale pertanto è impegnarsi nel lavoro di guarigione del corpo dettato dalla necessità di ricomporre in modo nuovo pezzi di sé dispersi, smembrati dopo un trauma. Guarire è necessario (un “imperativo coyolxauhqui”) per scongiurare il dramma della disgregazione, che contagia la comunità essendo il corpo collettivo mai separato dal corpo individuale. Senza guarigione non ci si può connettere agli altri e creare comunità. La ricomposizione ha dunque una finalità sociale, un atto di trasformazione in un continuo farsi e disfarsi, il cui collante è l’immaginazione, attraverso l’arte, la scrittura, la danza, la musica, pratiche trasformative che “creano immagini”. Da qui l’ invito di Anzaldua a cercare ciascuno/a la propria “visione guaritrice”. La trasformazione, in quanto processo di transizione, ti scaraventa in una terra di mezzo, in uno spazio liminale (nepantla) che ti fa percepire la realtà da molteplici angolature apparentemente contrapposte, come se si guardasse al contempo dall’interno e dall’esterno, con un “terzo occhio”, creando uno sdoppiamento nella consapevolezza. Muovendosi nel nepantla si crea una tensione che genera strappi, apre crepe (rajaduras). Guardare attraverso le fenditure delle nostre certezze combatte il binarismo, si sperimentano sincronie. “Dalle fenditure entra la luce che svela le falle nella nostra cultura”, scrive Anzaldua. “Sebbene sia difficile pensare e agire in modo positivo en estos tiempos de Coyolxauhqui, è proprio quest’epoca di dislocazione /separazione che reca con sè la promessa dell’interezza. Dobbiamo rendere testimonianza di ciò che i nostri corpi ricordano, di ciò che el corazon con razòn esperisce e condividere tutto questo con altre […] Queste narrazioni guaritrici non fungono solo da ‘cure’ di auto-sostentamento, ma trasformano sul serio la realtà”.
La spiritualità come azione etica di trasformazione del sociale, che, coniugata con l’immaginazione e i vissuti interiori è “in grado di dare vita a saperi sovversivi” (Anzaldua), è intesa anche da Antonietta Potente, domenicana, docente di teologia morale presso l’Angelicum di Roma e a Firenze, che ha coniato il termine “mistica-politica”. “Ciò che lega questi due elementi è l’esperienza, il corpo e la sua sensibilità, la vita quotidiana tra desideri, bisogni reali, iniziative, processi di riconoscimento delle identità e cura profonda verso ciò che si è sognato ma non è ancora stato realizzato” afferma Potente, per la quale “il corpo non è semplice esposizione ma profondo mistero e creatività dei sensi”. Potente, che dal 1994 ha vissuto in Bolivia sperimentando una forma di vita comunitaria con famiglie indigene e ha insegnato nelle università di Cochabamba e La Paz, paragona la capacità di “legare” i due elementi, apparentemente in opposizione, ad una “alchimia”, come si trattasse di formule chimiche. Un processo che si svolge nei “laboratori interiori” di ciascun essere umano privato della capacità creativa, della propria forza vitale. Altra “sintesi” che lega mistica e politica è l’ “essere fuori di sé”, imparare in altro modo lo “stare del “sé”. L’esperienza mistica sospinge il sé altrove, ad innamorarsi dell’altro. Uno stato psichico di sospensione, di “ex-stasis”, dislocare il proprio centro di gravità esistenziale “per essere disposti al volo, pronti a qualunque partenza[…] Non è forse questa l’esperienza mistica? Non è forse questa la pratica più alta della politica?”, si domanda Potente, consapevole di quale “inquietudine” questa sospensione comporta “per un essere umano che comunque, per diversi fattori, è tentato sempre a cadere e restare nel labirinto del sé massiccio, dove tutto ruota attorno all’ asse trasversale del proprio centro, rendendo il resto della realtà estraneo, fastidioso e impicciante, tutte le volte che non è a propria disposizione”. L’invito di Potente è ripristinare “a partire dalla propria esperienza e dalla più reale quotidianità” la propria creatività, seguendo l’esempio di quei “gruppi umani, [donne, operai, studenti, indigeni, rifugiati] che hanno dovuto essere misticipolitici per recuperare i loro spazi, mantenere viva la memoria e la propria creatività”. Come? “Vivere dal di dentro, imparare le strategie dell’interiorità, per non perdere la propria vita e non consegnarla ad altri”. Ascoltare il grido di dolore di milioni di persone private della propria forza; il grido della natura saccheggiata delle sue risorse, “le cui eco ciascuno può ritrovare in sé”. Misticapolitica è un invito al risveglio dei sensi; a un “vedere interiore”, a una cosmovisione profonda e “altra” del mondo; a guardare la realtà e percepire che c’è ancora qualcosa da scoprire nella profondità, in basso, verso le radici, tessuto e alimento della vita, uniche e diverse in ciascuno di noi. Misticapolitica è “provare a rileggere la vita con altri criteri”, “riscoprire gli interstizi della vita stessa”, “liberarci da questa morsa economica”. Ad essa si perviene attraverso “viaggi di crescita interiore”, “progressivi cammini di uscita da sé”, “aperture verso l’assenza, ciò che ancora manca”, “affinando la sensibilità”. Percorsi che per essere narrati hanno bisogno del linguaggio poetico “perché sono convinta che solo il lessico poetico può addentrarsi in quegli interstizi della vita, più peculiari e difficili. Perché la poesia è porta di entrata per prendersi cura dell’anima dell’umano e del cosmo”.
A ben vedere molti sono i temi comuni alle due filosofe, attiviste e femministe, a partire dal corpo. “I nostri corpi sono geografie dei sé costituite da ‘paesi’ diversi, limitrofi e sovrapposti” scrive Anzaldua. Per entrambe, il corpo individuale non è mai separato dalla comunità e dal “luogo” in cui è radicato. I corpi sono “segnati” dalle culture dei luoghi, dalla loro memoria, dai traumi e dai residui collettivi inconsci di chi ci ha preceduto. “I luoghi in cui sono vissuta hanno influito sulla mia psiche, hanno lasciato un segno in ogni cellula del mio corpo”, scrive Anzaldua. Così come chi vive negli spazi di frontiera, come le mestizas, esperisce episodi di dissociazione identitaria. Per entrambe, i luoghi sono costituiti da “tre mondi strettamente interconnessi”: “la terra di sotto”, il sottomondo, gli antenati. “Senza il permesso degli antepasados non si fa nulla, neanche un incontro si può fare”, scrive Potente; “la terra di mezzo”, che abitiamo, composta da fiumi, alberi, rocce, animali, piante, tutti con una loro coscienza e a cui è bene dare sempre un nome; “la terra di sopra”, lo spazio spirituale, abitato da energie incorporee che non vediamo. Il luogo così composto mantiene una relazione profonda con chi lo abita e influenza e plasma i desideri, le scelte. “Se rompi questa relazione, allora succede qualcosa anche a te”, afferma Potente.
Quanto espresso dalle due autrici – spiritualità; sapere radicato nel corpo; apertura a nuove cosmovisioni; attenzione all’invisibile; all’immaginazione; al sacro; al mistero; alle voci interiori; alle storie; ai sogni; al sentire profondo; alla modificazione dello stato di coscienza ordinario – le intendo come preziose coordinate su una mappa affettiva che mi guidi, in quest’epoca di dislocazione/separazione nella quale ci troviamo a vivere, per evadere dalla prigione mentale ed emotiva in cui siamo rinchiusi/e e tornare in possesso della forza vitale, creativa.
Sono materie, su cui altre filosofe, scienziate, antropologhe e poete sono spesso tornate. Cito fra tante: Chandra Candiani, Anna Maria Ortese, Chiara Zamboni, Stefania Consigliere, Donna Haraway, Maria Zambrano. Cito anche Ernesto De Martino per la sua vicinanza ai temi qui espressi, a partire dal concetto di “presenza” intesa come “continua esperienza di avere un corpo e saperlo usare”; la capacità di continuare a fare mondo, a iniziarlo di nuovo, facendo tesoro della memoria di comportamenti efficaci preesistenti, depositati nei singoli. Di stretta conseguenza è il “rischio della presenza” come smembramento, spaesamento, che si verificano in un soggetto privato dell’energia necessaria per mantenersi presente nella comunità a causa di un trauma “senza compensazione e senza riscatto”. Con tale termine De Martino fa riferimento alla funzione della “magia” e dello sciamano come mediatore. Da qui discende la definizione di “apocalisse culturale” come “rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile”.
“Si pensa al reale come a qualcosa di dato, che si mostra, percepibile coi sensi e la mente e storicamente collocato”, scrive Zamboni. Il reale piuttosto è “espresso dalla relazione tra ciò che è – e ciò che non è ma in qualche modo si mostra”. Possiamo anche definirlo “l’altra faccia del reale” che non ha spazio in questo attuale ordine patriarcale. E’ la “seconda irreale realtà” di cui scrive Ortese, per la quale il reale è “intollerabile” e non ama descrivere. Preferisce “l’espressivo”, una scrittura attraverso i sensi, per “apparizioni e visioni”. E’ l’invisibile, la parte in continuo divenire, regno del possibile, del molteplice, dell’eccedente. E’ l’oltre margine, il perturbante, l’inaudito, l’imperfetto, il non concluso. L’assetto del reale dipende dalla sua relazione con questa altra faccia incerta e pericolosa che Consigliere, debitrice a De Martino, chiama “magia”. “Spazio di sospensione tra ciò che siamo e ciò che ancora può darsi”, dove le intenzionalità non sono solo umane, dove vige la sincronicità e l’analogia, il simbolico ha efficacia sulla materia e ogni elemento è in relazione ‘simpatetica’ con la natura. La caccia alle streghe, insieme alla cancellazione di questo mondo, ha svuotato i soggetti delle loro forze, espropriandoli di potenza creatrice e provocando la miseria emotiva e l’ inerzia sensoriale di cui soffre oggi la modernità, scrive Consigliere. Ponendosi come unica realtà, la modernità rende inesistente e mostruoso tutto ciò che è potenzialmente distraente dalla morsa economica della produzione e dal consumismo, impedendo di vedere altre forme di vita oltre i margini del campo visivo dati per scontati o imposti. Il mondo è oggettivo, presunzione che richiede l’applicazione rigida della logica binaria. “Per vivere siamo tenuti a separare continuamente ciò che facciamo da ciò che sentiamo in un regime di dissociazione e impotenza”. “Cosa impedisce di guardare oltre le mura della prigione che ci soffoca?» Secondo Consigliere – a partire da una feroce critica alla sinistra, aggrappata al materialismo, preoccupata “del pane, dell’acqua, del tetto, delle armi: salario e struttura” -, la paralisi si scioglie ripristinando un tipo di conoscenza che Zamboni definisce “sapere sensitivo”, sensibile, eccedente. E’ “la risonanza delle cose del mondo nell’anima, quando lei va a passeggio assieme ai cinque sensi”. “Il sentire è interiore ed esteriore insieme […] fa da ponte in quanto allude al lato inconscio della nostra relazione con il mondo […] quanto più si dà spazio al sentire, tanto più il mondo si allarga, s’intensifica, diviene sensibile e onirico”.
Trovo il sentire di Zamboni vicino al pensiero “tentacolare” di Haraway che erompe dalle profondità buie della terra e procede “tastando” il terreno nel tentativo di generare nuovi paradigmi alternativi all’Antropocene, nuove alleanze e nuove forme di “respons-ability”, all’altezza del tempo presente, l’era del Chtulucene, che richiama i tentacoli “chiomati” del ragno, figurazione multiforme. Un pensiero che “resta a contatto con il presente torbido”, col trouble. Come Anzaldua e Potente, Haraway, da scienziata, invita ad un riposizionamento di sguardo capace di perforare l’opacità dei molteplici piani interagenti del sistema, rivolgendolo verso il basso, nel sottomondo, dove dimorano il rimosso, i sogni, il mostruoso.
Tutte le autrici citate sottendono ad un sapere non concettuale, ma contemplativo, vicino allo stupore dell’infanzia, che Candiani chiama “meraviglia”, uno “sguardo che ignora il risaputo e vede ora…” . Per Zambrano è “la visione attraverso il cuore” che “consente di aprire un varco laddove sembra non esserci passaggio alcuno”. Un sapere compassionevole, che per Candiani è “trasalimento del cuore alla vista della sofferenza degli altri”, e Anzaldua chiama facultad.
Sono posture passive (da patimento/passione) che incontrano tuttora una resistenza in quanto scatenano la paura di essere consegnati ad una potenza onnipotente, che fa sentire gli umani inermi, fragili, esposti, sopraffatti, e catalogate pertanto come pericolose.