Decine di femminicidi ogni anno rimandano al problema atavico del patriarcato. Ogni uomo dovrebbe chiedersi quante volte nella vita ha preteso da una donna un comportamento stereotipato di genere, come, ad esempio, “Fammi un caffè”. Anche questo atteggiamento è una forma di maschilismo patriarcale. Non bisogna andare lontano per spiegarlo: siamo in Italia.

L’ergastolo a Filippo Turetta per aver ucciso Giulia Cecchettin non può spegnere il dolore divampato come un incendio di rivolta contro il patriarcato. 

La violenza di genere si combatte con il fuoco trasformativo di Bruciamo tutto, che non è un gruppo di piromani, come ha dichiarato un idiota della Lega, accusando le attiviste di voler dare fuoco ad un ministero con i dipendenti dentro in occasione di un’azione nonviolenta.

Chiedo a Noemi, attivista di Bruciamo tutto, di spiegarci cosa sia questo movimento:

Bruciamo tutto è un movimento transfemminista di liberazione. Nasce ufficialmente a marzo 2024 dalla necessità di porre fine a un sistema patriarcale, che opprime, molesta, stupra e uccide le persone socializzate come donne e le identità queer.

Il nostro nome nasce dalle parole di Elena Cecchettin: “Per mia sorella non fate un minuto di silenzio, per mia sorella Bruciate tutto”. Queste due parole richiamano un fuoco che si trova dentro ognunə di noi: il fuoco della rabbia per un’oppressione che va avanti da millenni, colpendo una generazione dopo l’altra. Quello che ricerchiamo è il nostro fuoco trasformativo: un fuoco che non bruci per distruggere, bensì per rinnovare.

Bruciamo Tutto utilizza il metodo della resistenza civile nonviolenta per agire nel panorama transfemminista, e vuole anche riconettersi con tutte quelle dimensioni più spirituali e comunitarie di cui siamo statə privatə.

Cosa dovrebbero fare le istituzioni contro la violenza di genere?

Prima di tutto dovrebbero riconoscere e nominare la violenza di genere come il frutto di un sistema e una cultura patriarcale. Successivamente dovrebbero ascoltare e cercare di realizzare le richieste dei movimenti transfemministi. La nostra richiesta riguarda un miglioramento del già esistente Reddito di Libertà: un contributo di 400 euro pro capite su base mensile per un massimo di 12 mesi alle persone socializzate come donne che si trovano in situazioni violente e che sono seguite dai centri antiviolenza riconosciuti dalle regioni e dai servizi sociali. Questo contributo dovrebbe consentire e permettere l’autonomia e la fuoriuscita dalla violenza. In realtà però l’iter per ottenerlo è molto lungo e burocratizzato ed esclude diverse categorie marginalizzate.

Quello che stiamo facendo è coinvolgere le survivors stesse, le psicologhə e le espertə dei Centri Anti Violenza nella formulazione di un Reddito di Liberazione più coerente con la realtà e i bisogni delle persone che vogliono uscire dalla spirale della violenza. Vogliamo cambiare il nome da “Reddito di Libertà” a “Reddito di Liberazione” per sottolineare che non abbiamo ancora a disposizione la libertà che dovremmo avere e che il percorso per le persone che hanno subito violenza è proprio un percorso di liberazione dalla dipendenza e dall’oppressione.

Il compito fondamentale e ultimo delle istituzioni, però, dovrebbe essere anche quello di creare una nuova cultura, per risolvere il problema alla radice. Questo sarebbe possibile inserendo l’educazione sessuale e affettiva nelle scuole e sui posti di lavoro, invece che tamponare soltanto le situazioni di emergenza, per quanto importante sia.

Quali finalità può esprimere la disubbidienza civile nonviolenta?

Il nostro è un movimento di resistenza civile nonviolenta. La nonviolenza è una disciplina che affonda le sue radici in tempi antichissimi. Non corrisponde all’assenza totale di violenza, ma all’uso più limitato possibile di essa per ricercare la verità. La resistenza civile, basandosi sul principio della nonviolenza, utilizza azioni dirette per portare alla luce una o più ingiustizie che sono spesso occultate dai poteri dominanti. La resistenza civile ricerca il dialogo e il confronto e contempla le possibili conseguenze legali che possano derivarne con l’intento di utilizzarle per sottolineare l’ingiustizia che si cela dietro la criminalizzazione del dissenso e della lotta per la liberazione di tuttə.

Puoi descrivere gli aspetti emotivi di un’azione nonviolenta?

Compiere un’azione nonviolenta è sempre un’esperienza molto forte. C’è tutta una parte invisibile, che è quella della preparazione: capire bene che messaggio vogliamo mandare, come vogliamo mandarlo, rimanendo ancoratə alla nonviolenza. Poi decidere tutti i dettagli più tecnici, cercando di pensare ai vari scenari che potremmo trovarci davanti, a causa della repressione che subiamo in quanto attivistə.

Dopo una lunga e complessa organizzazione che coinvolge tante teste, finalmente arriva il giorno.

Prima di un’azione solitamente sento una forte adrenalina, probabilmente causata da una leggera ansia di interrompere la quotidianità con uno squarcio che trasmetta quello che sentiamo davvero. La responsabilità è tanta, molte cose potrebbero andare male, ma poi quando si comincia, l’ansia scompare e la cosa più grande che solitamente sento è un senso di liberazione e di forza. Mi sento unita alle persone che sono con me e anche a quelle che non sono fisicamente con noi, ma per cui portiamo avanti la nostra lotta.

È difficile mantenere sempre una postura nonviolenta, soprattutto davanti a insulti e comportamenti aggressivi, però cerchiamo di concentrarci su quello che ci spinge a entrare in azione e di solito funziona.

La parte finale, invece, è quella in cui ci arriva addosso tutta la stanchezza accumulata. Solitamente questa parte coincide con le ore passate in commissariato, che cerchiamo di sfruttare al meglio per dialogare con le forze dell’ordine ma che a volte sono piuttosto frustranti per la loro durata.

Trovare azioni adatte è sempre una grande sfida e sicuramente abbiamo tanto da migliorare come movimento così giovane, ma la cosa più importante è che ci concentriamo sempre sulle motivazioni che ci spingono a farlo e sulla liberazione che vogliamo ottenere e mai su un cieco senso di dovere.”

Prendiamo un esempio concreto di azione nonviolenta da un comunicato stampa di Bruciamo tutto del 13 marzo 2024:

Il movimento Bruciamo tutto arriva sul ponte Vittorio Emanuele II a Roma alle 08:30. Lᴈ attivistᴈ si dispongono in strada, srotolano uno striscione e danno il via alla loro azione. Si muovono sulla strada ballando la pizzica. Le macchine sono costrette a rallentare, creando un ingorgo nel traffico. Intanto lᴈ attivistᴈ sversano della vernice sull’asfalto, calpestandola e distribuendola sulla strada. Le macchine passandoci sopra lasciano una scia colorata sulla strada.

La scelta della pizzica è dettata dalla voglia di riconnettersi con la cultura popolare italiana e regionale. La pizzica è un ballo tipico del sud Italia che, secondo la storia, aveva lo scopo di liberare le “tarantate”, donne morse dalla tarantola, dal veleno del ragno. In realtà la tarantola non rilascia alcun veleno, e le tarantate altro non erano se non persone prese dall’isteria, che sfogavano con movimenti convulsi e veloci. Allo stesso modo noi vogliamo liberarci dal veleno del patriarcato, riconnettendoci con la nostra parte più folkloristica e sfogando la nostra energia con il movimento.

Grazie, Noemi. Grazie di cuore.