La canzone italiana oggi vive un periodo particolare tra arte, consumo culturale e pura melodia usa e getta. Il rischio è che l’industria discografica si concentri sempre più su “canzonette” e sulla commercializzazione di un prodotto piuttosto che sulla valorizzazione di un’arte.
Parliamo del rapporto tra arte e consumo culturale e delle prospettive nella musica italiana oggi con Luca Ragagnin, scrittore, paroliere, critico d’arte musicale e autore di testi teatrali e di monologhi. Inizia a scrivere racconti e poesie nei primi anni Ottanta e a pubblicare su rivista all’inizio degli anni Novanta. Dal 1994 collabora come paroliere con musicisti e artisti di varia estrazione, tra cui Antonello Venditti, Delta V, Garbo, Gigi Restagno, Lucia Minetti, Mao, Mina, Serena Abrami, Subsonica e Totò Zingaro. Nel 1995 vince il Premio Montale per la poesia con una silloge inedita, letta nello stesso anno da Vittorio Gassman nel ciclo televisivo Cammin leggendo e pubblicata l’anno successivo dall’editore Scheiwiller. È autore di romanzi (Marmo rosso, Arcano 21, Agenzia Pertica, Pontescuro, Il bambino intermittente), racconti (tra gli altri, Pulci, Un amore supremo), testi teatrali (Misfatti unici, Cinque sigilli) e poesie (tra le altre, le raccolte Biopsie, La balbuzie degli oracoli e Un solco senza seme), tradotte in Francia, Montenegro, Polonia, Portogallo, Romania e Svizzera.
Da paroliere come vedi lo sviluppo a cui è arrivata la canzone italiana oggi?
Sono cambiate le direzioni musicali e le generazioni parlano del mondo in cui vivono, con i valori con cui sono cresciuti, ed è giusto così, perché è sempre successo in questo modo, in qualsiasi epoca musicale. Ci saranno sempre una tendenza generalista che segue le indicazioni del mercato e un manipolo di voci fuori dal coro. I cantautori degli anni 70 avevano modelli esteri (l’America e per alcuni la Francia) e stavano rompendo con la tradizione del bel canto e dei contenuti, non più la canzone d’amore purchessia, il romanticismo, ma uno sguardo sociale, talvolta politico e certamente esistenziale. Ma chi smantella una tradizione prima o poi viene a sua volta smantellato; così sempre in quel decennio i nuovi cantautori impegnati furono presi a spallate dai musicisti che guardavano all’Inghilterra dei gruppi progressive. Questa è una delle ramificazioni di mezzo secolo fa e oggi, con le debite differenze storiche e tecnologiche, è un po’ la stessa cosa. Al fianco di un trapper, per dire, troverai sempre, magari in una zona di fitta ombra, un autore che ha avuto un’educazione e una propensione musicali completamente differenti. A questo punto subentrano i gusti personali. Penso che in generale le mode siano un cerchio e credo che questo valga anche per la musica.
Già negli anni Settanta Pasolini definì Sanremo come un Festival dedito a “canzonette” funzionali al neocapitalismo dei consumi. Era un tradizionalista che non capiva il nuovo che avanza, o c’erano già i segnali di un popolo rassegnato allo squallore?
Sanremo è ciò che deve essere, una macchina popolare di promozione inarrivabile che però non rileva la temperatura musicale reale del Paese. È un festival cerchiobottista. Deve accontentare l’utente televisivo e le disposizioni radiofoniche, con un ammicco alle ultime tendenze giovanili. Bisognerebbe andare a vedere i concerti, tuffarsi nel sottobosco, nelle piccole realtà, per capire meglio dove si sta andando. Pasolini arrivava (perché in qualche modo vi aveva partecipato) da un mondo della canzone nobile, impegnato, di denuncia diretta ma anche di riformulazione della parola canzonettistica, ma non era di certo un tradizionalista. Probabilmente avrebbe voluto cambiare i codici linguistici della canzone popolare, ma il testo di una canzone non è un’opera a sé stante, è solamente un ingranaggio di una macchina completamente diversa, la macchina-canzone per l’appunto, e chi estrapola un testo per dargli o meno una dignità letteraria manca completamente il punto.
Poi ci sono stati autori che hanno scritto dei testi altissimi ma che non si sono mai considerati dei poeti, penso da noi a De André, che a dargli del poeta gli veniva l’orticaria, o a De Gregori, che prende umilmente le distanze dalla parola poetica, e penso anche, all’estero, a un Dylan, testi meravigliosi sì, ma che liberati dall’incastro ritmico-musicale e da quel suo modo di cantare perdono molto, oppure a chi poeta lo era veramente, Cohen, che infatti escludeva dalle sue raccolte liriche i testi delle proprie canzoni o le rielaborava per la pagina. Sul discorso dello squallore, è un po’ come ho detto prima, il popolo, diciamo così, chiede certa musica e buona parte della musica segue il popolo, ma non tutta, per fortuna.
Perché siamo passati dalla canzone leggera italiana d’autore, da cantautori come De Andrè e Pierangelo Bertoli a una musica effimera, usa e getta?
Perché la società è cambiata, i valori sono cambiati, la storia del nostro Paese è cambiata. E anche perché fare musica oggi è accessibile a tutti. Un programma su un computer in cameretta è sicuramente un passo gigantesco in avanti, ma imbracciare uno strumento resta un’altra cosa. Questo per quanto riguarda i mezzi, che mezzi rimangono, contenitori da riempire. I contenuti riflettono la vita, le urgenze espressive degli artisti (a meno che si stia confezionando un prodotto per il commercio) e ciò che vivono oggi. Tu hai nominato Bertoli e De André. Ricordiamoci che erano dei ragazzi anche loro quando sono emersi sulla scena musicale da contesti completamente opposti (una borghesia medio-alta scartata a favore dell’anarchia, De André, e un proletariato sindacalista, Bertoli) e se oggi si possono accostare è perché la loro Italia era una sola e coinvolgeva tutti i ragazzi, quella degli anni armati, delle proteste ecologiste, delle rivendicazioni su mille fronti. Non so, mi pare che la cameretta, al di là dei vantaggi compositivi, accorci un po’ l’orizzonte sociale, ma ovviamente non è un discorso generalizzato.
Anche il messaggio delle canzoni è cambiato. Abbiamo vissuto la transizione dai testi che trattavano di poesia e di temi sociali, politici e amorosi, mentre oggi il testo è solo funzionale alla melodia. Questo passaggio può essere il segnale di un impoverimento culturale?
Non solo. Premesso che il testo deve essere funzionale alla melodia, mi capita di ascoltare nuovi artisti che hanno sviluppato una perizia notevole nell’uso della rima, degli incastri, alcuni sono dei veri e propri virtuosi, ma spesso mi chiedo se il prezzo che stanno pagando non sia un po’ troppo alto: la rima diventa il contenuto, il mezzo schiaccia il contenuto, spesso fino a renderlo superfluo.
Oggi si può parlare di arte musicale o, nell’industria discografica, di consumo musicale? Si può tracciare una differenza tra arte e consumo culturale?
La musica è un’arte, quindi, sì, se ne può parlare, se ne deve parlare in questi termini. L’industria discografica fa quello che deve fare un’industria, cercare il prodotto con la maggiore carica di fatturazione. Vale per tutte le arti, non solo per la musica. Oppure scegliere un’altra strada, che è la nicchia, la ricerca della qualità, l’azzardo propositivo, nella speranza che il cerchio di cui parlavo prima ruzzoli verso un capovolgimento di fronti e porti nel mainstream ciò che mainstream non è per costituzione. Il consumo culturale ha a che fare con varie sollecitazioni e poco con l’arte. Come si diceva un tempo? L’arte per l’arte, giusto? Ecco, senza essere talebani o snob o esclusi con compiacimento, ai ragazzi musicali di oggi direi questo: l’industria discografica l’avete già superata, ora non preoccupatevi del consumo culturale, pensate a migliorare la vostra arte, studiate che cosa e chi c’era prima di voi e sempre, sempre guardatevi intorno.