Martedì 4 dicembre la Corte di Cassazione dovrà pronunciarsi, oltre che sul ricorso del governo contro l’ordinanza del 18 ottobre scorso adottata dal Tribunale di Roma che non ha convalidato il trattenimento amministrativo di un richiedente asilo bengalese nel CPR di Gjader, in Albania, anche sul rinvio pregiudiziale dello stesso Tribunale di Roma che, agli inizi dello scorso luglio, ha sospeso il giudizio sull’istanza cautelare presentata con un ricorso contro la decisione di manifesta infondatezza della richiesta di protezione, pronunciata dalla Commissione territoriale di Roma, nei confronti di un richiedente asilo tunisino, dunque ritenuto proveniente da un “paese di origine sicuro”. Entrambi i casi sono anteriori al Decreto legge “flussi” n.145/2024 nel quale è confluito con alcuni emendamenti il successivo Decreto legge “paesi sicuri” n.158/2024, adottato per stabilire con legge la lista dei “paesi di origine sicuri”, in precedenza prevista con un decreto interministeriale, in modo anche di sottrarre aile sezioni specializzate in immigrazione dei Tribunali la competenza nelle convalide dei trattenimenti dei richiedenti asilo per trasferirla alle Corti di Appello in composizione monocratica.
La Procura generale della Cassazione ha formulato la richiesta di una sospensiva del procedimento oggetto dell’udienza del 4 dicembre, in attesa di una decisione della Corte di Giustizia dell’Unione europea sulle questioni pregiudiziali già sollevate dai tribunali italiani che saranno discusse nell’udienza del 25 febbraio 2025, con procedura abbreviata, ma con una decisione finale che non arriverà prima del mese di aprile del prossimo anno. Fino ad allora dovrebbero restare sospese le procedure accelerate in frontiera e i trasferimenti verso i centri albanesi, a meno di non incorrere in ulteriori rinvii alla Corte UE. La stessa Procura generale della Cassazione, tuttavia, oltre a sollecitare la sospensione dei procedimenti in corso in Italia, in attesa della decisione della Corte di giustizia UE, ha esposto una interpretazione fortemente riduttiva della sentenza della Corte di Giustizia del 4 ottobre scorso, che a differenza di quanto richiamato da questa Procura non si limitava alla questione della qualificazione territoriale dei paesi di origine sicuri, ma affrontava anche i temi delle cosiddette “riserve su base personale o per l’appartenenza a gruppi sociali” e quindi dei diritti di difesa dei richeidenti asilo, che devono essere effettivi, e non meramente cartacei, e richiamava la centralità del ruolo della giurisdizione. Si riconoscevano in proposito ai giudici nazionali precisi poteri/doveri di “cooperazione istruttoria” che potevano condurre alla esclusione della natura “sicura” di un paese di origine anche prescindendo da “eccezioni territoriali” ed in assenza di una specifica allegazione di elementi probatori in ordine alla condizione personale individuale da parte del richiedente asilo. Va anche ricordato che la decisione della Corte di Giustizia del 4 ottobre si riferiva ad un caso di diniego per manifesta infondatezza di una richiesta di asilo e non ad una convalida di un trattenimento amministrativo di un richiedente asilo. Con questo tipo di valutazioni peraltro, già diversi giudici italiani hanno disapplicato il diritto interno in contrasto con la normativa UE, ritenuta vincolante anche in alcune disposizioni contenute in Direttive alle quali si attribuiva efficacia diretta. Disapplicazione in procedure cautelari o di convalida caratterizzate da una estrema immediatezza dei termini in scadenza, che però non ha escluso altri rinvii per questioni di interpretazione pregiudiziale alla Corte di giustizia UE.
Una lettura restrittiva, questa fornita dalla Procura generale, che non si discosta troppo dal giudizio tranciante del ministro della giustizia Nordio, secondo cui i provvedimenti di non convalida del trattenimento adottati dal Tribunale di Roma sarebbero “abnormi perchè privi di motivazione”. Ma dopo avere riunito due giudizi tanto eterogenei, la Corte di Cassazione non potrà pronunciarsi senza prendere in considerazione uno per uno tutti i motivi proposti dal Tribunale di Roma con la sua richiesta di interpretazione pregiudiziale trasmessa lo scorso luglio, in merito ad un ricorso contro il diniego di protezione, e senza entrare nel merito della corposa motivazione offerta dal Tribunale di Roma nel caso di mancata convalida del tratenimento amministrativo nel centro per i rimpatri di Gjader in Albania. Motivazioni che spiegano bene come le eccezioni soggettive possano essere riconosciute dal giudice anche in assenza dell’allegazione di gravi motivi da parte del richiedente asilo in stato di trattenimento, con una totale privazione della libertà personale già subito dopo lo sbarco e la formalizzazione della volontà di chiedere asilo.
L’art. 37 della direttiva 2013/32/Ue (procedure) attualmente in vigore, che definisce la categoria di paese di origine sicuro, al punto 1, prevede che “Gli stati membri possono mantenere in vigore o introdurre una normativa che consenta, a norma dell’allegato I, di designare a livello nazionale paesi di origine sicuri ai fini delle domande di protezione internazionale” L’allegato I della direttiva, precisa i criteri per la designazione di un Paese di origine sicuro, stabilendo che un Paese è considerato sicuro “se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato”. L’Avvocatura dello Stato, nel ricorso in Cassazione proposto contro la decisione del Tribunale di Roma, definita “errata ed ingiusta”, che con una ordinanza depositata il 18 ottobre scorso non convalidava il trattenimento di un cittadino bengalese nel centro per i rimpatri di Gjader in Albania, disposto dal questore di Roma con provvedimento del 16 ottobre, osservava a sua volta che il Tribunale di Roma avrebbe fatto “malgoverno delle norme che regolano la designazione di Paese di origine sicuro” e che avrebbe “travisato il contenuto e la portata della sentenza della Corte di Giustizia UE del 4 ottobre 2024”. Nel suo stringato ricorso in cassazione, l’Avvocatura dello Stato aggiunge che il Tribunale di Roma sarebbe incorso in un difetto di motivazione, in quanto il richiedente asilo non avrebbe invocato “gravi motivi” per ritenere non sicuro il proprio paese di origine, mentre il Tribunale non avrebbe valutato “il caso di specie”, limitandosi “a svolgere una serie di considerzioni astratte in diritto, senza confrontarsi con la fattispecie concreta e in particolare con l’appartenenza o meno del richiedente alla categoria di soggetti che risulterebbe “a rischio” nel paese di provenienza”.
Una parte di queste argomentazioni trovano eco in alcune posizioni dottrinali che tendono a ridurre la portata applicativa della sentenza della Corte di Giustizia UE del 4 ottobre scorso, affermando la necessità che i giudici tornino ad “occuparsi del caso concreto” e dunque a raccogliere elementi probatori addotti dai ricorrenti, anche nelle procedure di convalida del trattenimento amministrativo, per provare con una congrua motivazione “gravi motivi”, nei singoli casi, per escludere la provenienza da paesi di origine “sicuri”.
Nella sentenza della Corte di Giustizia dello scorso 4 ottobre si osserva invece, anche in contrasto con quanto adesso affermato dall’Avvocatura dello Stato e dalla Procura della Corte di Cassazione, che “infine, l’espressione «se del caso», contenuta nella parte di frase «compreso, se del caso, l’esame delle esigenze di protezione internazionale ai sensi della direttiva [2011/95]», evidenzia il fatto che l’esame completo ed ex nunc incombente al giudice non deve necessariamente vertere sull’esame nel merito delle esigenze di protezione internazionale e che esso può dunque riguardare gli aspetti procedurali di una domanda di protezione internazionale (v., in tal senso, sentenza del 25 luglio 2018, Alheto, C‑585/16, EU:C:2018:584, punto 115). Per i giudici di Lussemburgo che si esprimono sulla necessaria verifica d’ufficio da parte del giudice sulla legittimità della designazione di un paese come sicuro, si sottolinea che il mancato rispetto dei criteri previsti dalla direttiva per la designazione, implicando anche gli aspetti procedurali della domanda, deve essere oggetto di un esame completo ed ex nunc da parte del giudice, che vi deve provvedere anche d’ufficio (punti 90 e 91 in particolare). La Corte UE aggiunge in proposito:“Ebbene, la designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro rientra in tali aspetti procedurali delle domande di protezione internazionale in quanto, alla luce delle considerazioni esposte ai punti da 48 a 50 della presente sentenza, siffatta designazione è atta a comportare ripercussioni sulla procedura di esame vertente su domande del genere.“(Punti 90 e 91).
E’ evidente come si cerchi, attraverso la designazione di un paese di origine “sicuro”, il tratenimento amministrativo, e la limitazione di diritti di difesa dei richiedenti asilo, e correlativamente del potere/dovere di cooperazione istruttoria del giudice, anche in assenza di eccezioni sollevate dai richiedenti asilo, di rendere più facile e veloce il rimpatrio forzato del richiedente asilo denegato. Come emerge anche dalle previsioni contenute nella Relazione tecnica allegata al Protocollo Italia-Albania nella quale si prevede che il 90 per cento dei richiedenti asilo trattenuti nel Centro di Gjader possa ricevere un diniego per manifesta infondatezza, e fatte salve le limitate ipotesi di un ricorso con effetti sospensivi, diventi quindi immediatamente assoggettabile ad una procedura di rimpatrio con accompagnamento forzato. Tutto questo non può applicarsi però in modo automatico, esclusivamente sulla base di una lista di paesi di origine sicuri, sia questa frutto di un decreto interministeriale, che di una legge ordinaria, alle procedure di convalida dei trattenimenti in frontiera, ed alle istanze di sospensiva dei dinieghi per manifesta infondatezza, dopo procedure accelerate in frontiera, che hanno caratteristiche temporali di tale rapidità che un onere di allegazione ulteriore in capo al richiedente asilo, potrebbe tradursi nella negazione sostanziale dei diritto di asilo e dei diritti di difesa.
Le modifiche alla disciplina processuale e sostanziale delle procedure accelerate in frontiera, apportate con i decreti legge n. 145 e 158, (che adesso decadrà per confluire come emendamenti nel primo), allo scopo di contrastare le decisioni dei giudici che non hanno convalidato i trattenimenti nei centri hotspot in territorio italiano, e quindi nei centri di detenzione in Albania, oltre alle questioni già poste alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, pur non incidendo su quanto dovrà decidere la Corte di Cassazione nell’udienza del 4 ottobre, sollevano gravi dubbi sul rispetto dei principi costituzionali di uguaglianza di fronte alla legge (art.3), di riconoscimento del diritto di asilo (art.10), di garanzie in materia della libertà personale (art.13) e di effettività dei diritti di difesa (art.24), basi dello Stato di diritto, e dunque della democrazia nel nostro paese. Al di là delle decisioni della Corte di giustizia dell’Unione europea attese nella primavera del prossimo anno, è su questo terreno che si dovrà misurare la risposta della giurisdizione interna, fino alla proposizione di questioni di legittimità costituzionale, ed è su questo stesso terreno che andranno sviluppate dall’avvocatura e dalle associazioni iniziative più incisive per garantire il diritto di asilo, un giusto processo e l’accesso effettivo ai diritti di difesa, oggi in territorio italiano, domani, se i centri di Shengjin e di Gjader saranno aperti, in Albania.