Le regioni che Russia e Ucraina si contendono dal 2014 sono ormai un deserto: migliaia di edifici, strade, ponti, fabbriche, impianti e servizi distrutti, campi e acque inquinate da residui bellici di ogni tipo – ora anche mine antiuomo destinate a esplodere nel tempo – e dai veleni rilasciati dalle esplosioni, fauna selvatica e allevamenti avvelenati, abitanti fuggiti da una parte o dall’altra.
L’esercito ucraino ha sparato sulle zone che rivendica come sue – altre, in Russia, fino a poco fa non poteva colpirne – una media di 9.000 proiettili di cannone (esplosivi) al giorno, tanto da esaurire le scorte che Usa e Nato potevano mettere a disposizione. L’esercito russo ne ha sparati almeno altrettanti oltre il fronte di guerra, ma sempre sulla parte non conquistata o non occupata delle stesse regioni. Che cosa volete che sia rimasto, di quelle terre? Poi, con l’aviazione, i razzi e i droni ha colpito tutto quello che poteva distruggere nel resto del Paese, a partire dalle strutture energetiche (ma non il tubo che attraversa l’Ucraina per rifornire di gas una parte dell’Europa, continuando a pagarne l’affitto: anche la guerra ha il suo sovoir faire). Quando e se cannoni e bombe taceranno, chi potrà mai tornare a vivere una vita normale in quelle lande devastate?
Entrambe le parti hanno continuato a ripetere che avrebbero combattuto “fino alla vittoria!”. Ma quale vittoria? Sicuramente quella contro le centinaia di migliaia di vittime sia militari che civili (si stima oltre un milione di morti: due o tre volte di più gli invalidi fisici e psichici per tutto il resto della loro vita) su entrambi i fronti: più civili in Ucraina, più militari in Russia (Zelensky sostiene che l’avanzata in corso costa all’esercito russo 1.000-1.500 perdite al giorno). Ma l’Ucraina, che ha meno carne da cannone della Russia, oltre ai proiettili degli Usa e della Nato ha esaurito anche la sua scorta di uomini (che cerca ora di sostituire con i razzi a lunga gittata). Per mandarne al fronte di nuovi il governo ha scatenato per le strade di città e villaggi una caccia selvaggia ai renitenti che non sono riusciti a nascondersi o a fuggire dal Paese, ha abbassato l’età della leva a 25 anni e ora Biden chiede di portarla a 18. Credo che non ci sia prova maggiore di questa del fatto che quella in Ucraina è, per gli Usa e la Nato, una guerra “per procura”: a farsi ammazzare ci vadano loro!
Così sui proclami “fino alla vittoria!” sta lentamente calando la sordina e se mai si arriverà a un cessate il fuoco (di pace per ora è meglio non parlare, è diventata una parola sporca, sinonimo di resa), sarà “alla coreana”: una linea di demarcazione lungo il fronte da cui ucraini dell’est e dell’ovest possano guardarsi in cagnesco per anni. Ma il crollo della Federazione Russa, o il cambio di regime, o la destituzione di Putin, tutto ciò su cui Biden aveva puntato, dichiarandolo esplicitamente, non ci saranno. Non ci sarà nemmeno il crollo dell’Ucraina, anche se Zelensky (oggi, dopo il suo momento di gloria, l’uomo più odiato del Paese e anche il più imbarazzante per i suoi sponsor, perché sarebbe la memoria vivente del baratro in cui l’hanno spinto) dovrà probabilmente far perdere le sue tracce. Ma sul groppone di un’Europa stremata dalle sanzioni imposte alla Russia, dalle forniture di armi e denaro all’Ucraina e dalle spese del proprio riarmo, voluto dagli Usa, resterà il fardello di tenere in piedi un Paese distrutto, indebitato fino al collo e senza quasi più uomini validi: non un grande business quello su cui punta la Meloni…
Ma non può finire così! In Ucraina si è giocata e si gioca la libertà! Ma quale libertà? L’Ucraina era, prima della rivolta di Maidan (un grande movimento di popolo, per alcuni e un colpo di stato per altri. Verosimilmente tutte e due le cose) un Paese corrotto, infestato da bande di nazisti sostenuti dagli Usa, governato da un pugno di oligarchi (alcuni legati all’”Occidente”, altri alla Russia), creato, come in Russia, dal saccheggio del fu Stato sovietico, già impegnato in una guerra contro i propri concittadini delle sue province russofone che rivendicavano un’autonomia. Dopo un breve intermezzo, Zelensky era stato eletto promettendo di porre fine alla guerra, allo strapotere degli oligarchi, alla corruzione e alle bande naziste. Non ha fatto nessuna di queste cose, ma tutto il contrario: verosimilmente costretto dagli uni e dagli altri, ma molto di più dalle pressioni Usa che cercavano di fare del Paese un boccone della Nato per portare la Russia alla guerra. Il resto è purtroppo cronaca.
E adesso? Adesso l’Ucraina è, più o meno come la Russia, uno dei Paesi meno liberi del mondo. E’ in mano a una corruzione sfrenata sulle forniture belliche e sulle esenzioni dal servizio militare, alle bande naziste integrate nell’esercito regolare, a un Presidente scaduto che non si dimette, che ha abolito i partiti e la stampa di opposizione e scatenato la caccia ai renitenti per mandarli a morire al fronte. E’ questa la libertà che ci si aspettava dalla sua inclusione nella Nato (e non solo nell’Unione Europea), vera posta in gioco di questo massacro giocato sulla testa del popolo ucraino? Non stupisce quindi che in Moldavia e in Georgia, dove le elezioni sono state esposte al sospetto di brogli e interferenze della Russia (quelle degli Usa non ci sono mai, anche se a Maidan la loro regia era smaccata) ci sia per lo meno una buona metà di elettori che, visti i risultati, non hanno nessuna voglia di ripercorrere la strada dell’Ucraina. E che persino in Romania, dove la Nato si è già insediata, il rischio di un esito simile ha fatto vincere le elezioni a un autentico nazista, che ha l’unico merito di non voler cacciare il Paese nello stesso baratro. Il fatto è che oggi la libertà viene fatta coincidere dai media mainstream (cioè tutti) con l’appartenenza alla Nato, come fino a non molti anni fa l’appartenenza al mondo cosiddetto “libero” coincideva, anche per Stati fascisti come Spagna, Portogallo, Grecia, Turchia o l’Iran dello Scià, o Stati fantoccio, come la dinastia saudita, con nient’altro che la fedeltà agli Usa.
Ma se non lo si ferma, Putin divorerà l’Europa da Tallin a Lisbona! Sta di fatto che dopo la caduta del muro di Berlino il patto di Varsavia si è sciolto (dunque, se ne poteva uscire), mentre la Nato è avanzata fino ai confini della Russia e sui Balcani, con l’intento dichiarato di inghiottire anche Ucraina e Georgia, portando ovunque le sue basi, i suoi missili, e “l’abbaiare” delle sue esercitazioni. E non c’è Stato che possa uscirne, perché la sopravvivenza delle sue élite al potere è indissolubilmente legata alla loro fedeltà atlantica.
Ma purtroppo non finisce qui: la guerra ad Hamas, pagata con lo sterminio dei palestinesi, e a Hezbollah, con quello dei libanesi, opera di Israele, ma con le armi degli Usa, ha fornito a questi l’occasione per unificare i due maggiori fronti di guerra, coinvolgendo, per ora indirettamente, il principale alleato e sostenitore di Putin, che in questo momento è l’Iran. E’ bastato far muovere a Erdogan, membro della Nato che gioca in proprio, le milizie fondamentaliste insediate a Idlib – già associate ad Al Qaida e poi all’Isis, ma create e armate a suo tempo dagli Usa per rovesciare Assad – per ricomporre in un confronto unico i due principali “pezzi” di una guerra mondiale già in corso. Perché provocare o scatenare una guerra è facile, ma uscirne – ormai è chiaro – è sempre più difficile.