Dallo scorso mese è in vigore in Italia la legge che rende la gestazione per altri (Gpa) “reato universale”, punibile quindi non solo se la pratica è avvenuta nel nostro Paese (dove peraltro è vietata dalla Legge 40 del 2004, con pene che prevedono la reclusione fino a due anni e multe fino ad un milione di euro), ma anche all’estero, se pur in uno Stato dove tale pratica è legale.

L’approvazione della legge, fortemente voluta dalla destra al governo, ha scatenato un dibattito acceso non solo in Parlamento, ma sulle maggiori testate giornalistiche italiane e straniere. Equiparare infatti la gestazione per altri a reati gravissimi come la pedofilia o il genocidio, solo per fare alcuni esempi, risulta talmente irragionevole e incomprensibile da suscitare non poche perplessità in quegli Stati in cui la pratica è legale, soprattutto per il timore di lunghi ed estenuanti contenziosi giudiziari con il nostro Paese, anche per un eventuale coinvolgimento di cittadini stranieri.

Difficile sintetizzare le posizioni trasversalmente opposte all’interno dei partiti e del variegato movimento femminista che hanno accompagnato l’iter della legge fino alla sua approvazione definitiva lo scorso 16 ottobre e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale un mese dopo. E come può non essere divisivo un tema che tocca aspetti morali ed etici così profondi, vissuti personali di donne, uomini, coppie che affrontano il complesso percorso di una genitorialità desiderata?

Se la destra esulta per la “difesa delle donne e dei bambini”, contro la “mercificazione della maternità e l’utero in affitto”, l’opposizione non è riuscita a contrastare l’ennesima manovra populista e ideologica del governo Meloni.
Le Famiglie Arcobaleno, dal canto loro, denunciano come proprio la sicurezza dei figli sia negata dalla legge Varchi: essa, impedendo il riconoscimento da parte di entrambi i genitori, con la conseguente assunzione di responsabilità, rifiuta di assicurare ai nuovi nati un contesto di crescita sicuro e tutti i diritti civili connessi alla familiarità legale.

Quando la Ministra della Famiglia Eugenia Roccella dichiara enfaticamente che la nuova legge sarà un esempio per la rete mondiale del femminismo, tocca sicuramente un nervo scoperto del movimento femminista, non solo italiano: hanno destato scalpore, infatti, le dichiarazioni della collega spagnola Montero (Podemos) del governo Sanchez che ha definito la maternità surrogata “una forma di violenza contro le donne”.

In Italia la spaccatura tra le varie anime del femminismo è netta, e acuita ancor di più dall’approvazione della legge. Una associazione storica come l’UDI, nel ribadire la contrarietà alla Gpa (pur con alcuni distinguo dalle posizioni reazionarie della destra sull’idea di famiglia tradizionale), chiede la sua eliminazione in tutto il mondo perché alimenta un mercato di sfruttamento del corpo delle donne.

Di contro, le posizioni a favore della GPA non sono solo appannaggio di movimenti femministi come NUDM o del mondo LGBTQ* ma hanno aperto un dibattito all’interno dei partiti di sinistra, di associazioni legali o di famiglie che si battono per un’idea di genitorialità condivisa, libertà di scelta e, soprattutto, riconoscimento legale dei figli nati da coppie omogenitoriali; tema questo ritornato alle cronache da quando lo scorso anno il ministro dell’Interno Piantedosi ha invitato tutti i sindaci ad interrompere la registrazione degli atti di nascita di bimbi con due mamme, non soltanto quelli nati con la GPA, e le procure ad intraprendere azioni per impugnare tali atti.

Un inaccettabile ritorno indietro riguardo ai diritti civili, soprattutto dei figli di coppie omogenitoriali che rischiano di rimanere privi di tutele legali in un vuoto normativo che compromette la loro identità sociale.
Ricordiamo che il diritto di famiglia italiano è, al momento, il più arretrato d’Europa, a proposito di matrimoni fra coppie omosessuali, omogenitorialità e adozione, diritto alla stepchild adoption (adozione dei figli dell’altro/a compagno/a), PMA (procreazione medicalmente assistita) e GPA (gravidanza per altri).

Di recente in occasione di un ciclo di seminari dedicati all’identità di genere, all’Istituto Gramsci Siciliano, si è svolto un dibattito animato da Giuseppina La Delfa, fondatrice nel 2005 dell’Associazione Famiglie Arcobaleno.
Figlia di siciliani emigrati in Francia e cittadina francese lei stessa, sceglierà di tornare a vivere nel sud d’Italia con la sua compagna e con la prima dei suoi due figli; insieme le donne decideranno, per consegnare alla piccola un avvenire libero da pregiudizi, di vivere e raccontare secondo verità trasparenza responsabilità e cura la propria esperienza.

Nasce così una trilogia. Il primo volume, Peccato che non avremo mai figli (2018) avvia il racconto dell’amore fra Pina e Raphaelle nel segno della rinuncia – rinuncia alla maternità – fino a quando entrambe non comprenderanno che la sterilità delle donne lesbiche non è una condanna naturale ma uno stigma sociale. A questo punto, si aprirebbe la strada dell’adozione, impossibile per una coppia omogenitoriale in Italia, o della procreazione medicalmente assistita, vale a dire inseminazione artificiale o fecondazione in vitro, lecita fino al 2004, ma in seguito proibita nel nostro Paese dalla legge 40.

Iniziano così i viaggi della speranza in Belgio, diciassette, e i ripetuti tentativi di realizzare una gravidanza, narrati nel secondo libro, Tutto quello che c’è voluto. Storia di pance, semi e polvere di stelle (2019). Le due donne preferiscono ricorrere a un donatore anonimo, poiché un padre amico in carne ed ossa comporterebbe una costruzione familiare più complessa che non si sentono di affrontare.

Faticoso il concepimento, faticosa la gravidanza, ma la piccola Lisa Marie, oggi ragazza, compensa di tutto. Il terzo libro, Famiglie (e se a qualcuno non piace fa lo stesso) (2024) inizia con la nascita della bimba. Le due madri scelgono un paesino dell’Isernia per vivere e lì non esitano a “fare outing”, affinché nessuno debba mai spiazzare Lisa con domande come “dov’è tuo padre?”.

La vita scorre serena: a scuola, nonostante i primi imbarazzi di genitori e insegnanti (non certo dei bambini), nel paese, nelle relazioni amicali. Il problema è l’accesso alla cittadinanza e ai diritti della piccola: Lisa avrà una prima carta di identità con i nomi delle due madri (ci sono voluti quattordici anni di lotte legali per ottenere il doppio riconoscimento in Francia), ma non le verrà più rinnovata. La legge ammette un solo genitore e, se mai, ne invoca uno di sesso opposto; in questo modo disconosce la responsabilità di entrambe/i all’educazione e alla cura e, in caso di separazione della coppia, affida ad uno/a solo dei due il/la minore.

Di qui l’esigenza di trasformare il proprio vissuto personale in attivismo politico: raccontare, denunciare e battersi, affinché i figli godano di un contesto affettivo stabile e sicuro e di diritti certi, come meritano tutti i bambini: nascono le Famiglie Arcobaleno.

La scelta della Gpa, con tutto il vissuto esperienziale che l’accompagna, è ancora più complessa. È indubbio, dice Chiara Lalli dell’Associazione Luca Coscioni, che esistono situazioni e vicende di sfruttamento, nelle quali coppie omo o eterosessuali sterili, per appagare il proprio desiderio di genitorialità, si avvalgono di una giovane ospite, spesso immigrata da paesi poveri. Ma è proprio per questo che è necessaria una legge, come quella proposta nel disegno depositato in Parlamento dall’associazione, che definisca premesse mediche e legali di una gestazione gratuita e solidale, per evitare gli abusi.

C’è chi sostiene che, a fronte della famiglia nucleare, normata dalla religione dal diritto dalla medicina, il movimento delle Famiglie Arcobaleno, come il più largo LGBT+, sia il più coerentemente anti-patriarcale oggi. Ma c’è anche chi, all’interno del femminismo, lo percepisce invece come una minaccia alla differenza sessuale, carica di un ordine materno simbolico (e non solo)  irrinunciabile.

Qualunque opinione si possa avere in merito, è indubbio che la legge appena approvata che bolla come “figli del reato universale” i nati da coppie, omogenitoriali ma anche eterosessuali, con la pratica della gestazione per altri ha di fatto azzerato il dibattito sulla Gpa e ogni tentativo di trovare soluzioni condivise ad un problema che non può essere affrontato con una logica meramente punitiva, come tanto piace alle destre.

La difesa della libertà delle donne, ripetutamente e strumentalmente sbandierata da chi la legge Varchi ha voluto, passa però in secondo piano quando le associazioni pro vita vengono ammesse negli ospedali e nei consultori per condizionare pesantemente le donne in merito alla scelta sull’aborto!

Oltre che essere per molti aspetti inapplicabile e soggetta ad innumerevoli ricorsi, questa legge sul “reato universale” ci riporta indietro nel tempo e apre scenari che pensavamo di avere ormai superato: dal ritorno alla clandestinità, soprattutto per coppie eterosessuali per le quali sarà più facile sottrarsi ai controlli anagrafici attraverso finte gravidanze e riconoscimenti tardivi di figli, alle ripercussioni che le nuove norme, seppur non retroattive, avranno sui bambini nati da Gpa nella loro vita sociale.

Una proposta di legge questa sul reato universale demagogica, palesemente discriminatoria nei confronti delle famiglie non tradizionali e soprattutto dei diritti di cittadinanza dei figli, che andava respinta senza se e senza ma da tutto il movimento femminista, pur nella legittima diversità di posizioni. Abbiamo invece assistito ad un acceso dibattito a favore o contro la Gpa, ma la stessa veemenza non ci pare sia stata utilizzata per controbattere (e combattere) le assurde tesi della destra in presunta difesa “del corpo femminile e della dignità delle donne”.

Per alcunɘ la Gpa è un fatto contro natura, per altrɘ un dono generoso, in ogni caso non è mai un reato: non toglie la vita, la dà.
Forse questa volta avremmo fatto meglio a guardare la luna (e non il dito), anche perché la vita reale – con i suoi rapporti affettivi e le sue relazioni sociali – è molto più semplice e autentica di tutte le farragini ideologiche e non è nascondendosi dietro i divieti che si possono impedire i mutamenti di costume epocali.