Faccio musica e la musica non può essere censurata: scrivo quello che vedo e vivo quello che scrivo.
Così Tony Effe, rapper e icona della trap italiana da milioni di streams su Spotify e decine di Dischi di Platino e Dischi d’Oro all’attivo, commenta sui social la sua esclusione dal concertone di Capodanno a Roma dopo le proteste di consigliere comunali, di militanti della sinistra e dei centri antiviolenza, per i testi violenti e misogini delle sue canzoni. Un gesto costato caro al sindaco Gualtieri e alla giunta per il ritiro di artist* che avrebbero dovuto esibirsi al concerto contro un atto considerato di censura, mentre altre star del mondo musicale italiano si sono affrettate a manifestare solidarietà verso il giovane cantante in nome della libertà di espressione.
L’avvenimento in sé può essere considerato un mero fatto di cronaca, la denuncia di “uno sparuto gruppo di nonne scandalizzate dal nipotino che dice le parolacce”, come lo definisce subito Selvaggia Lucarelli, senonché il crescente clamore mediatico, reso ancor più gustoso dall’annuncio di un mega concerto alternativo del rapper con biglietti scontati esauriti in poche ore, merita forse qualche breve riflessione.
Innanzitutto su un tema caldo come quello della censura evocata più volte, e soprattutto dalle motivazioni di chi si schiera subito con il rapper: “non è una cattiva persona e non ha fatto male a nessuno”, “la verità e la libertà sono imbavagliate” “quella è la sua forma di espressione, nella vita reale non fa quelle cose”, finanche da acrobatici e improbabili ( non ce ne voglia Tony Effe) paragoni con il passato come il concerto di Woodstock “dove c’era gente tutta nuda e fatta” o ad alcuni testi dei Rolling Stones e di altri gruppi degli anni ’70. Insomma, la musica si critica ma non si censura e questa è una inoppugnabile verità.
Il sindaco Gualtieri, da parte sua, difende la decisione di escludere il rapper dal concerto e nega ogni censura: potrà cantare dove e quando vuole, ma la sua presenza ad un evento finanziato dal comune con soldi pubblici non può che essere divisiva perché “si sono urtate alcune sensibilità su valori fondamentali come la libertà delle donne e la lotta contro ogni forma di violenza nei loro confronti”.
Certo forse queste giustissime considerazioni andavano fatte prima di un invito dettato più dalla speranza di intercettare un pubblico di giovanissimi per la riuscita del concerto che da una attenta valutazione dell’impatto mediatico del messaggio trasmesso, sempre che qualcuno tra i responsabili dell’organizzazione i testi li abbia letti davvero, della qual cosa ci permettiamo di dubitare.
Come è lecito dubitare della adeguatezza delle scelte successive: l’esclusione dal concerto ha avuto come unico risultato l’effetto contrario alle aspettative, aumentando la popolarità del rapper e creando attorno a lui un alone di martirio sfruttato in modo repentino da una potente industria musicale (la Universal Music Group, una delle major dell’industria musicale mondiale). Per evitare il boomerang pubblicitario sarebbe stato preferibile giocare sul terreno dell’avversario, magari con pubbliche dichiarazioni o con interventi prima e durante il concerto, che avrebbero costretto il rapper a confrontarsi sui testi delle sue canzoni e su quel sibillino “scrivo quello che vedo e vivo quello che scrivo “ che denota quanto meno una certa confusione.
La seconda considerazione necessita di una breve premessa: anche in questo anno i femminicidi in Italia hanno superato quota cento vittime, con alcuni casi particolarmente efferati che hanno colpito l’opinione pubblica e generato proteste in tutta Italia. Un fenomeno che non accenna a diminuire e che non trova, d’altra parte, sostanziali risposte da parte delle istituzioni, se non generiche dichiarazioni riguardo alla necessità non solo di pene più severe, ma di interventi su una corretta educazione all’affettività e ai rapporti uomo-donna fin dall’età più precoce. Ma si lavora dal basso e con scarsi mezzi a disposizione, nelle scuole, nei centri antiviolenza, con la sensazione che l’impegno pur notevole di molte organizzazioni si scontra ahimè contro un muro di violenza atavica, di vendetta patriarcale, se così ci è consentito di nominarla, che si riesce appena a scalfire.
I numeri sulla violenza e sugli stupri in Italia nel 2024 dimostrano che siamo ancora di fronte ad un’emergenza nazionale in continuo aumento specie su giovani donne e minorenni, così come in aumento sono le richieste di aiuto al numero 1522 anti violenza e antistalking e ai centri di aiuto su violenze e maltrattamenti in famiglia. Non si può del resto fare a meno di pensare che un fenomeno così strutturale, se non riguardasse soltanto le donne, avrebbe avuto risposte da parte delle istituzioni certamente più incisive.
Da alcuni anni anche la musica è scesa in campo con concerti e manifestazioni che si auspica contribuiscano ad accendere i riflettori su questa carneficina, perché la musica, si sa, è cultura e soprattutto raggiunge il sentire di migliaia di giovani di ogni età; quale mezzo più efficace per combattere pregiudizi e comportamenti sessisti?
Da qui lo stupore nel leggere alcuni nomi di artist* in prima linea negli eventi musicali antiviolenza tra quelli che hanno manifestato solidarietà al rapper denunciando una censura nei suoi confronti, perché una cosa, dicono, è scrivere (e cantare) di violenza sessista, altra cosa è praticarla. Per alcuni di loro l’appartenenza alla stessa casa discografica ha fatto anche pensare ad una solidarietà interessata o imposta, ma si sa, a pensar male si fa peccato…
Dunque, parafrasando il buon Bennato, sono solo canzonette? No, certamente, le parole hanno un peso quando raggiungono migliaia di giovani pronti ad emulare il loro idolo nei comportamenti; Tony Effe rappresenta un prodotto altamente redditizio per un’industria musicale che propone l’immagine del maschio alfa che considera le donne oggetto di possesso e violenza.
Siamo sicuri che si può ancora tollerare una subcultura che istiga alla violenza contro le donne e che veicola il disprezzo per il genere femminile, giustificandola con la difesa di una presunta “libertà di espressione”? Forse anche la casa discografica ha compreso che questa polemica va oltre il semplice fatto di cronaca, tanto da essersi affrettata a denunciare il danno di immagine che produrrà sul suo beniamino e a dichiarare che una parte dei guadagni del concerto di fine anno sarà devoluta ai centri antiviolenza?
Nel frattempo la giunta capitolina, oltre ad avere salvato il concerto di fine anno, ha incassato la solidarietà anche di buona parte dei politici di destra, ma non di Eugenia Roccella che, dimenticando di ricoprire la carica di ministra per le pari opportunità, non ha perso tempo a dichiarare che impedire a qualcuno di parlare è violenza illiberale. Lo sa bene lei che ha gridato alla censura per le contestazioni di un gruppo di femministe al Salone del libro di Torino, e tra martiri, si sa, ci si comprende!
Insomma, grande è la confusione sotto il cielo… ma la situazione non è eccellente.