La linea ferroviaria ad alta percorrenza Firenze-Bologna a 40 metri, l’autostrada A1 a 800 metri, l’aeroporto Vespucci a 5 chilometri; leggendo la descrizione dell’ubicazione del deposito Eni di Calenzano, dove ieri una terribile esplosione ha causato la morte di 5 lavoratori, nonché il ferimento di altri nove, a chi vive  a Falconara e nel territorio circostante sembra di leggere la descrizione della Raffineria Api da decenni presente nella periferia della città. Anche qui c’è una linea ferroviaria ad alta percorrenza, che però al contrario di Calenzano passa addirittura dentro la raffineria, a fianco corre la statale adriatica e a pochi chilometri c’è l’aeroporto internazionale Raffaello Sanzio. Anche qui il 25 agosto del 1999 un’esplosione provocò delle vittime, due lavoratori.

Ma le dimensioni dell’impianto di Calenzano impressionano: ben 170.300 mq, 24 serbatoi, 5,2 milioni di tonnellate di petrolio raffinati ogni anno. Il sito svolge attività di ricezione, deposito (stoccaggio) e spedizione di benzina, gasolio e petrolio (kerosene) per il settore aereo, prodotti che arrivano  tramite due oleodotti collegati con la Raffineria Eni Livorno, per venire quindi stoccati in serbatoi atmosferici cilindrici (a tetto fisso o galleggiante) in attesa dell’invio alle pensiline di carico delle autobotti.  Il deposito è operativo dal 1956, gli anni del boom economico, più o meno lo stesso periodo in cui anche il sito di Falconara, nato nel 1933 come piccolo deposito, aumentò notevolmente le sue dimensioni.

Ma lasciando da parte le analogie, ci troviamo di fronte all’ennesima tragedia annunciata. Medicina Democratica tramite il suo presidente Marco Caldiroli ricorda che quello di Calenzano “è registrato tra gli impianti a rischio rilevante, direttiva Seveso” e sottolinea come “l’entità dell’esplosione denota un mancato intervento tempestivo dei sistemi di sicurezza interni e un’impossibilità da parte degli stessi di affrontare l’evento. La morte, il ferimento di diversi lavoratori e il numero dei dispersi  porta a individuare un evento estremo incontrollato o anche un evento verificatosi durante i primi interventi dei servizi di sicurezza interni. In ogni caso dimostra purtroppo un’inadeguata protezione dei lavoratori stessi e insufficienti misure di sicurezza a loro dedicate.”

“La normativa sull’argomento è estremamente chiara e obbliga i gestori a sottoporsi a valutazioni e controlli significativi. I principali obblighi riguardano la stesura e validazione di un rapporto di sicurezza, in cui il gestore deve documentare la capacità di gestione di ogni evento prevedibile con interventi in grado di mantenere gli effetti in aree limitate e soprattutto all’interno del perimetro aziendale; gli scenari incidentali vanno anch’essi validati dagli enti e comprendono quelle informazioni per garantire la sicurezza all’esterno degli impianti (non permettendo la vicinanza di siti sensibili) e l’attivazione di piani di emergenza dedicati e conosciuti dai cittadini” sottolinea Caldiroli.

Nella nota viene evidenziato come ci si trovi di fronte ad un “incidente rilevante” per gli effetti sulle persone, che ne richiama molti altri precedenti ma con somiglianze, da quello presso la Raffineria ENI di Livorno (da cui provengono i combustibili stoccati) nel novembre 2021, alla raffineria di Falconara Marittima (AN) nel 2018, che aveva interessato un serbatoio di combustibili con “tetto galleggiante” a quella di Sannazzaro dei Burgundi (PV), dicembre 2019, e che richiama altresì i rischi connessi con il trasporto e le procedure di rigassificazione di gas naturale liquefatto, in fase di espansione in Italia in particolare dopo la riduzione della disponibilità di gas russo”.

Il comunicato di Medicina Democratica ricorda come quello di Calenzano sia uno dei tanti siti-bomba presenti nella nostra penisola. E infatti da decenni esistono accanto a noi, sorti in zone ad alta densità abitativa raffinerie, fabbriche e quant’altro che mettono a repentaglio la nostra incolumità.

Sono circa mille gli impianti pericolosi, molti nati tra gli anni Cinquanta e i Sessanta.  Un centinaio sono depositi con una capacità superiore a 3.000 mc, vengono trattati 120 milioni di litri al giorno di carburanti.

Dopo il disastro di Seveso del 1976 fu emanata l’omonima direttiva, rimasta sulla carta come spesso capita in Italia, perché poi ci vorrebbero i controlli; come dimostrano emblematicamente e drammaticamente le cronache quotidiane, la sicurezza dei lavoratori è spesso ignorata, dato che gli ispettori sono pochi, le imprese pensano al profitto e quindi la strage continua. Anche nel caso di Calenzano verrà aperta “l’inchiesta per accertare eventuali responsabilità”, ma anche su questo fronte sappiamo come va spesso a finire, ThyssenKrupp docet.

In alcuni casi nei territori dove esistono questi “mostri dello sviluppo” da anni comitati, associazioni ambientaliste e movimenti di base portano avanti coraggiose battaglie per evitare che la vita di intere comunità venga messa a rischio, come succede a Falconara, ma i grandi marchi industriali continuano a godere di impunità e protezioni di ogni genere, per cui si continua ad inquinare e purtroppo a morire.

Come scriveva quel tale “E le stelle stanno a guardare…”