Da tempo fonti autorevoli, istituti di ricerca, studiosi e quant’altro, attestano come il livello di diseguaglianze abbia raggiunto livelli di guardia, così come la forbice tra salari, stipendi e capitale si sia allargata come non mai. Se si paragona il capitalismo contro cui la mia generazione ha lottato tra gli anni Sessanta e i Settanta, e quello che da decenni è egemone in ogni latitudine, seppure in versioni diverse, la differenza è evidente. Un quadro che nel nostro Paese è ancora più marcato a causa di questioni strutturali che lo rendono fanalino di coda nelle statistiche europee in vari ambiti: sanità, istruzione, trasporti, servizi pubblici in generale, ambiente, l’elenco è lungo.
Dunque è vero ci vuole, o meglio ci vorrebbe una “rivolta sociale”.
Ma affinché questa si possa dispiegare ci sono alcuni presupposti. Innanzitutto una popolazione prevalentemente giovane, o comunque con una componente giovanile importante. Come è noto, a proposito di anni Sessanta e Settanta, allora fu la generazione del cosiddetto baby boom a essere protagonista. Oggi la società italiana, cosa altrettanto risaputa, vede prevalere la componente anziana o comunque “matura”.
I giovani sono una minoranza e le loro dinamiche sono spesso caratterizzate da una conflittualità intragenerazionale, come attestano le cronache quotidiane, fenomeno accentuatosi, non a caso, nella fase post Covid. Certamente c’è una parte della popolazione giovanile che è impegnata nel sociale, ma parliamo di una minoranza, al di là dei settori interessati, e spesso in una logica assistenziale, cioè fuori da una visione politica e non caritatevole.
Altra prerogativa essenziale la presenza di più soggettività sociali e politiche in grado di fungere da punto di riferimento e assumere un ruolo di catalizzatrici rispetto al disagio diffuso che però rifluisce nella dimensione individuale, tra disperazione, supporto famigliare e amicale e arte di arrangiarsi. Lasciando da parte il misero, anche un po’ squallido panorama politico tradizionale, anche sul fronte dei soggetti sociali la situazione è purtroppo misera. Nonostante la generosità di alcune componenti di movimento che fanno quello che possono dando vita, in alcuni casi, vedi Val Susa e altri territori, a battaglie di resistenza di vario genere con un seguito di massa rilevante, o alle mobilitazioni di questi mesi in solidarietà con il popolo palestinese, il panorama è alquanto modesto e se volgiamo lo sguardo verso i cugini d’Oltraalpe la differenza balza agli occhi. In Francia la rivolta sociale l’hanno praticata sul serio in varie fasi. Dalla mobilitazione di anni fa contro la riforma delle pensioni, che bloccò completamente il Paese per varie settimane, alla più recente vicenda dei “gilet gialli”. Ma stiamo parlando di una realtà nazionale, mettendo da parte la tradizione storica, dove la sinistra politica, seppur con tutti i limiti e “difetti” non è evaporata come da noi e le soggettività sociali hanno ancora una credibilità, a partire dai sindacati, i quali anche nella loro versione più moderata, alla fine hanno dovuto fare buon viso a cattivo gioco. E il paragone con i nostri confederali è imbarazzante se si pensa che ai tempi della famigerata e disastrosa “Legge Fornero” furono proclamate due ore di sciopero, aumentando la perdita di credibilità, già diminuita notevolmente.
Ecco perché quando l’attuale segretario generale della Cgil evoca la “rivolta sociale”, è inevitabile provare una certa irritazione, per usare un termine soft. Dopo anni di cedimenti e compromessi al ribasso, sentire parlare di rivolta è poco serio. Soprattutto, guarda caso, se ciò avviene con un esecutivo di destra, ma ai tempi delle politiche sociali ed economiche di governi come quello “Monti Napolitano” o del mitico “Super Mario”, si è fatto poco o nulla, e allora di “rivolta sociale” non si parlava.
Certamente visto che al peggio non c’è mai fine, oggi lo scenario è pessimo, perché ai provvedimenti economici che ovviamente sottostanno ai dettami Ue, si aggiungono leggi come il DDL sicurezza, che però anche in questo caso è in sintonia con quanto fatto in passato dai governi di diverso schieramento, seppure peggiorando ulteriormente la logica, nonché una odiosa persecuzione nei confronti dei migranti con la guerra aperta nei confronti delle Ong.
Dunque le parole vanno soppesate altrimenti si rischia di prendere in giro la gente. Se poi si afferma che “la rivolta sociale è in atto con gli scioperi”, evidentemente si prendono lucciole per lanterne, dato che le rivolte di solito si caratterizzano con astensioni dal lavoro continuative, con blocchi stradali, ferroviari e tutti gli strumenti che un movimento si dota, come la storia dei conflitti sociali evidenzia. Eppure di una rivolta generalizzata e diffusa ce ne sarebbe bisogno, se si tiene presente non solo la dimensione sociale, ma pure il fosco quadro internazionale con il baratro di una guerra nucleare sempre più vicina. Quasi quotidianamente i giornali ci stanno preparando alla drammatica eventualità raccontandoci come certi Paesi, quelli del Nord Europa, stanno dando indicazioni alla popolazione come comportarsi in caso di conflitto militare, ignorando che se si dovesse arrivare a tanto i margini di salvezza sarebbero ben pochi perché per la prima volta si paleserebbe una guerra nucleare. Sono le stesse testate che gridano alla “violenza” quando, come recentemente, si verificano alcune blande dinamiche di piazza. Del resto guerra interna contro il disagio sociale e chi non abbassa la testa e guerra militare internazionale sono due facce della stessa medaglia.
Opporsi a questa deriva criminale è un dovere. Attuarlo con un minimo di coerenza tra il dire e il fare sarebbe opportuno. E più serio…