La crisi dell’auto che sta colpendo tutto il mondo occidentale merita una riflessione che vada al di là delle soluzioni estemporanee proposte nella speranza di uscirne in qualche modo. Le cose sono molto più complesse di quel che sembra. Forse a rendere chiaro a tutti, ma non per questo accettato, il superamento dei limiti del pianeta (Planetary boundaries) non saranno gli eventi estremi provocati dalla crisi climatica, ma le automobili. I primi sono ancora sporadici, percepiti come casuali, lontani (quando non se ne è vittime dirette). Tra le seconde, invece, siamo immersi tutti i giorni, sia assediati dal traffico o ossessionati dalla ricerca di un parcheggio, sia afflitti dal costo del loro mantenimento, quando non ci vengono portate via da un torrente che tracima per un’alluvione o le ritroviamo ammucchiate in un groviglio inestricabile di lamiere e di fango come a Valencia. Eventi, questi, rari e sporadici come gli uragani, ma capaci di colpire il nostro immaginario ben di più delle migliaia di esseri umani rimasti senza casa o affogati a causa di un’alluvione lontana.

Quello che vediamo e sappiamo del parco auto del pianeta (1,5 miliardi di veicoli) è solo una piccola parte di ciò che l’epidemia dell’auto ha inflitto al ventesimo e ventunesimo secolo. Produce nei Paesi altamente motorizzati (e senza contare produzione e smaltimento) circa il 10% delle emissioni climalteranti. In Italia, quindi, solo il 10% dell’1% (il contributo nazionale) delle emissioni mondiali. Eppure, tutti gli sguardi sono concentrati sul passaggio all’auto elettrica, considerato da alcuni una panacea della crisi climatica e da altri la causa di fondo delle difficoltà economiche e della perdita di competitività del Paese. Per questo sia gli uni che gli altri invocano massicci sostegni pubblici all’”automotive”: dal lato della domanda, con premi a chi compra auto elettriche (ma anche non elettriche); dal lato dell’offerta, sovvenzionando i produttori delle une, ma anche delle altre.

Quello che per oltre un secolo è stato il settore portante dello “sviluppo” economico, decisivo nel determinare il rango di un Paese – prima gli Usa, poi la Germania, ora la Cina – oggi si ritrova con il cappello in mano ad elemosinare fondi dai rispettivi governi, dall’Unione Europea, dalle politiche di transizione, quando già non li ha ottenuti in modo più o meno nascosto, come negli Usa e in Cina. L’auto sembra rivelarsi un fardello sulle spalle delle economie nazionali, perché non sa o non vuole concepire, progettare e programmare la sua conversione ad altre produzioni: quelle essenziali alla transizione, con conseguenze gravissime anche sul piano occupazionale. Il che spinge i sindacati a unirsi al coro degli industriali nel pretendere sovvenzioni inutili e dannose, che non servono a ridurre una crisi iscritta nella natura stessa della mobilità individuale: le auto sono troppe perché il pianeta possa reggerne il carico, peraltro destinato, nei programmi di governi e padroni del settore, a raddoppiare in pochi decenni.

Ma i danni inflitti da questo sistema di mobilità non si limitano alle dimensioni economiche e occupazionali, né a quelle ambientali dirette come inquinamento e congestione. Cementificazione, dissesto idrogeologico, distruzione di biodiversità sono altre facce della mobilità automobilistica. La cementificazione riguarda soprattutto i centri abitati, la loro urbanizzazione selvaggia (lo sprowl), il loro assetto urbanistico determinato non dal numero e dal rango degli abitanti, ma da quello delle loro automobili. Ma quanti sono gli urbanisti che lo considerano un dato “naturale”? Quello delle città non è governo di umani, ma governo del traffico e dello spazio destinato al parcheggio. L’auto ha reso accessibili aree e territori prima esclusi da un’urbanizzazione intensa, spesso a spese del loro assetto idrogeologico. Fuori dalle grandi e medie città, poi, si moltiplicano strade, autostrade, gallerie, viadotti e servizi decentrati – ipermercati, centri commerciali, discoteche, cinema multisala, luna park – raggiungibili solo in auto. Si arriva così alla trasformazione di villaggi pittoreschi nati intorno ad attività tradizionali come pesca, agricoltura e allevamento di altura, o artigianato legato alle risorse naturali locali, in mere espansioni della metropoli, afflitte dalla stessa congestione, dallo stesso inquinamento, dalle stesse abitudini e stili di vita: la morte della biodiversità naturale e sociale. Per non parlare della deforestazione di intere regioni tropicali per aprire strade che rendano possibile la loro ulteriore deforestazione…

Infine, l’auto personale si è trasformata in una scuola di competitività per la potenza dei motori, la velocità, il parcheggio, l’attraversamento delle strade. Una competitività che si riversa, senza soluzione di continuità, nella vita lavorativa, sociale e familiare. Il crollo della civiltà dell’automobile, per molti inconcepibile (ma per molti di loro è inconcepibile anche la crisi climatica) lascerà per strada non solo molti lavoratori senza alternative in altri settori – quelli essenziali alla transizione – ma anche molte crisi esistenziali tra coloro che non riusciranno ad abituarsi a vivere senza il proprio guscio metallico, o che semplicemente non avranno più i mezzi per averne uno. E’ impossibile oggi confrontarsi con la crisi dell’auto senza inquadrarla – come tutto il resto – entro la crisi climatica e ambientale che incombe.

Cemento, asfalto, congestione, inquinamento e distruzione di biodiversità e degli assetti idrogeologici, fatica e precarietà del lavoro sono tutti aspetti che accelerano la crisi climatica, ma che rendono soprattutto difficile contrastarla. Le manifestazioni devastanti e sempre più spesso apocalittiche dell’onnipresenza dell’auto, in un’epoca in cui il trasporto condiviso potrebbe ridurne il numero di dieci volte, contrastano con le immagini che la pubblicità bugiarda, ipocrita e misogina di un’industria in crisi ci trasmette con frequenza ossessiva: l’auto che risponde docile ai comandi e che scivola veloce, lontana dalla congestione urbana e autostradale, in paesaggi naturali, o addirittura tra le stelle: simbolo e strumento di libertà, ma al tempo stesso di dominio.