Intervento del Movimento Nonviolento di Palermo per la Terza Marcia Mondiale della Pace e della Nonviolenza con un invito a firmare per l’obiezione di coscienza
(Palermo, 24 novembre 2024)
A fronte delle storie di guerra e delle parole di vendetta che alimentano l’attualità, vorremmo proporne altre di tipo ben diverso, direttamente provenienti dai luoghi dei due principali conflitti armati odierni.
Primo esempio. Nel luglio 1967, conclusasi la “Guerra dei sei giorni”, a Ramle, vicino Tel Aviv, alla porta della famiglia ebrea bulgara Ashkenazi cui nel 1948 era stata assegnata una casa, in quanto «proprietà abbandonata», bussa Bashir-al-Khayri e chiede a Dalia, la ragazza che gli apre:
«nel giardino c’è ancora l’albero di limoni?».
Lui, in quella casa c’era nato e la sua famiglia non l’aveva “abbandonata” ma ne era stata cacciata via dai soldati israeliani. I due fanno amicizia ma sono separati dalle loro posizioni politiche. Nel 1988 Bashir, che fa parte del Fronte popolare per la liberazione della Palestina ed è stato in prigione per avere ucciso dei civili con una bomba, sta per essere deportato in Libano.
Dalia, che intanto si è sposata, saputo dell’arresto, gli scrive una lettera aperta dicendosi consapevole che il suo Paese le ha mentito, facendole credere che la casa in cui viveva fosse stata abbandonata e che dunque la sua casa era anche araba; gli chiede anche di dissociarsi dal terrorismo e aggiunge: «Certo, comprendo bene che ‘terrore’ è un termine relativo ad un punto di vista soggettivo. (…) quello che consideriamo terrorismo, il tuo popolo lo considera, invece, eroica ‘lotta armata’. E ciò che noi consideriamo diritto all’autodifesa, quando dal cielo bombardiamo obiettivi palestinesi ed inevitabilmente colpiamo civili, voi lo considerate terrore di massa dal cielo (…) Ciascuna parte mostra ingegno nel giustificare la propria posizione. Quanto a lungo perpetueremo questo circolo vizioso?».
La donna ha ben chiaro che ciascun popolo vede le cose attraverso la lente della propria sofferenza. Poi critica la deportazione di Bashir e infine chiede a israeliani e palestinesi di riflettere: «questo è un tipo di guerra che nessuno può vincere: i due popoli raggiungeranno insieme la liberazione, o nessuno dei due la otterrà».
Nel ‘91 Dalia e suo marito fondano a Ramle “Open House” (Casa Aperta), e la casa che era stata di Bashir e ora è sua diventa luogo di seminari, anche internazionali, per la gestione nonviolenta dei conflitti e per la coesistenza amichevole tra ebrei e arabi.
Si noti che le parole di Dalia prima citate assomigliano straordinariamente a quelle di Desmond Tutu, Presidente della Commissione per la Verità e la Riconciliazione in Sudafrica nel 1995: «Durante i terribili anni dell’apartheid, spesso dicevamo che i bianchi non sarebbero mai stati realmente liberi finché anche noi neri non lo fossimo stati. […] insieme, bianchi e neri. Nessuno dei due gruppi, da solo, ce l’avrebbe fatta a sopravvivere».
Ed ecco una seconda storia lontana dai luoghi comuni ordinari. A metà strada fra Tel Aviv e Gerusalemme sorge, fondato nel 1972 da padre Bruno Hussar, il villaggio di Nevè Shalom/Wahat al Salam (doppio nome, ebreo e arabo, che significa “Oasi di pace”). In esso, ebrei e palestinesi convivono e i loro figli studiano, alla stessa “Scuola di Pace”, entrambe le lingue e culture e dandosi reciproco riconoscimento, e anche lì si tengono laboratori di nonviolenza.
Ne volete una terza, di storia? Nel 2001, dopo un attentato a Tel Aviv, un israeliano spara a Mazen Jouliani, un palestinese di 33 anni, a Shuafat (Gerusalemme). La madre, su suggerimento di un imam, offre gli organi del figlio per un trapianto a qualsiasi uomo – musulmano, cristiano o ebreo – ne abbia il bisogno più urgente, in quanto «per l’Islam è un dovere salvare la vita del prossimo». E così il cuore di Mazen salverà la vita di un ebreo.
Ed ecco un quarto caso, di quest’anno. Quello che vede l’organizzazione “Rabbini per i diritti umani” fare da scorta nonviolenta ai palestinesi raccoglitori di olive di Jaba (tra Hebron e Betlemme) che vengono attaccati di continuo dai coloni ebrei. I rabbini collaborano perfino alla raccolta, compreso il loro stesso direttore esecutivo Avi Dabush che prima del 7 ottobre 2023 viveva nel kibbutz di Nirim, attaccato da Hamas, al cui massacro era però riuscito a scampare nascondendosi.
Un ulteriore particolare: di “Rabbini per i diritti umani” fa parte anche Adam Rabea, un palestinese, prima militante nella resistenza armata e poi, dopo l’incontro con Suleyman Khatib, fondatore di Combatants for peace, passato alla lotta nonviolenta e sposato con un’ebrea.
E in Ucraina? Ecco due esempi. Nel novembre 2022, l’ucraino padre Andriy Zelinsky presenta l’esercito del suo Paese come un esercito popolare: «si sono arruolati professori universitari, operai, cantanti lirici», dice. «E hanno perso la vita», ma non mostra odio nei confronti dei russi che combattono nella sua terra: «Spesso – aggiunge – si tratta di gente povera, mandata allo sbaraglio, che non sa neppure perché sia qui. Rubano di tutto. E, quando tornano a casa, riferiscono di aver visto tutt’altra realtà».
Katrin Cheshire, del movimento pacifista ucraino, sempre nel novembre 2022 ha inoltre dichiarato: «Noi crediamo che ogni conflitto possa essere risolto pacificamente, che la guerra è un crimine contro l’umanità, che (…) la vita di ogni ucraino è il valore più grande, la vita di ogni russo è il valore più grande, la vita di qualsiasi persona al mondo è il valore più grande (…) Ora lottiamo affinché tutti abbiano il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare (…). Chiedo il vostro sostegno perché il nostro Stato presti attenzione a tutte le opportunità per risolvere il conflitto senza violenza, affinché ci si impegni tutti per negoziare».
Cosa possiamo fare dunque per la pace? Fare conoscere esperienze come queste, fare gemellaggi (soprattutto tra scuole e università) con questi luoghi o associazioni, rinunciare – e chiedere di rinunciare – al linguaggio di odio e di schieramento unilaterale, sull’esempio, come si vede, delle stesse persone direttamente coinvolte. Mostrare, insomma, che lo spazio per la pace esiste e bisogna soltanto che (anche) le terze parti vogliano situarvisi.
È questa l’indicazione da seguire: se vuoi la pace, prepara la pace in ogni campo, e non gli armamenti; se vuoi la pace, fai dichiarazione di obiezione di coscienza per il caso di ritorno alla leva obbligatoria (qui il modulo Obiezione alla guerra – Azione nonviolenta – Lavori in corso causa guerra); se vuoi la pace, chiedi che si istituisca un “Ministero per la difesa non armata e nonviolenta” e che sia obbligatorio formarsi alle tecniche della nonviolenza. Insomma: se vuoi la pace, opera per la pace a trecentosessanta gradi e non nei ritagli di tempo.
Movimento nonviolento – Centro di Palermo
movmonviolentopa@gmail.com – https://movnonviolentopalermo.blogspot.com/