Sì, hanno fatto davvero la storia, come diceva Giorgia Meloni alcuni mesi fa. Il “modello Albania” è fallito in partenza e non occorre attendere le sentenze dei giudici.

Innanzitutto basta confrontare i numeri in continuo calo annunciati dal governo: prima 3000 persone al mese da trattenere nei centri albanesi con una prognosi di espulsione pari al 90 per cento, nella legge di ratifica ed esecuzione del Protocollo Italia-Albania; poi soltanto qualche centinaio, nelle SOP (procedure operative standard) che avrebbero dovuto seguire le navi militari italiane per una serie di trasbordi in acque internazionali, ma all’interno della zona SAR italiana, a 20 miglia circa a sud-ovest di Lampedusa, quindi con la capienza provvisoria annunciata nei centri in Albania (per non più di 400 posti iniziali); infine con il numero delle persone effettivamente trasportate nel porto di Shengjin con nave Libra, e poi ricondotte in Italia, qualche decina in tutto.

La prova tangibile di un fallimento che non è derivato soltanto dalle sentenze, pur doverose, del Tribunale di Roma, e prima della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e di tanti tribunali italiani, Firenze, Bologna, Roma, Catania, Palermo.

La questione del ricorso ad una lista di paesi di origine sicuri, adesso prevista con un decreto legge (n.145/2024) da imporre ai giudici per un rigetto lampo delle richieste di protezione internazionale, sulla quale dovrà pronunciarsi la Corte di Cassazione il prossimo 4 dicembre, in attesa della decisione della Corte UE di Lussemburgo, è stata occasione per una gigantesca strumentalizzazione che mira a subordinare la magistratura agli indirizzi dell’esecutivo.

Il vittimismo della Meloni, che accusa gli organi giurisdizionali di avere fatto fallire il modello Albania, corrisponde ad un collaudato metodo di governo che nasconde i fatti reali, ricorre alla decretazione d’urgenza per sterilizzare le decisioni dei giudici, e utilizza la macchina della propaganda per stravolgere l’assetto costituzionale.

Ma l’esperimento dei centri di transito (Shengjin) e di detenzione (Gjader) in Albania sarebbe fallito, e continuerà a fallire in futuro, indipendentemente dagli attesi pronunciamenti della Corte di Giustizia di Lussemburgo e dei giudici italiani, siano Tribunali o Corti di Appello.

Il trasferimento di competenze sulla convalida dei trattenimenti nei centri di detenzione durante le procedure accelerate in frontiera, dalle Sezioni specializzate dei Tribunali civili alle Corti di Appello, frutto dei più recenti emendamenti governativi al decreto legge n.145/2024, non garantisce la funzionalità degli uffici giudiziari, che in alcuni casi saranno sovraccarichi fino alla paralisi, come si può prevedere con la Corte di Appello di Roma.

Si configura una negazione dell’esercizio effettivo dei diritti di difesa, soprattutto con giudici lontani collegati con procedure telematiche ed avvocati scelti con il concorso dei responsabili delle strutture in Albania. Si dovrà sempre tenere conto che le procedure di convalida dei trattenimenti vanno concluse entro i rigidi tempi (96 ore) imposti dalla legge e dall’art. 13 della Costituzione italiana.

La controversa categoria dei paesi di origine “sicuri”, per quanto possa essere utilizzata dalle Commissioni territoriali con una raffica di dinieghi per manifesta infondatezza, non garantisce affatto l’esecuzione dei rimpatri forzati.

Come è confermato dai dati sui rimpatri dai Cpr, che nel corso del tempo sono rimasti attestati a qualche migliaio di persone all’anno, con aumenti esaltati dal governo in termini percentuali, ma con incrementi di poche centinaia di espulsi, se si guardano le cifre reali.

Si assiste così ad una produzione istituzionale di irregolarità, derivante dalle norme sempre più restrittive in materia di protezione, e anche di lavoro e studio, che ha fatto lievitare il numero di immigrati irregolari in Italia, anche se la presenza complessiva di stranieri non appartenenti all’Unione europea è in continuo calo.

Nel 2023 sono stati espulsi soltanto il dieci per cento dei migranti detenuti nei CPR, appena 2.987 su 28.347, mentre il totale dei rimpatri è stato di 4.267 effettuati anche alle frontiere, negli aeroporti o dalle Questure. Nella prima metà del 2024, a fronte di 13.330 ordini di rimpatrio l’Italia, da tutti i centri di detenzione ubicati nel nostro paese, ha espulso effettivamente soltanto 2.035 persone, eppure dal centro di Gjader se ne vorrebbero espellere altrettante ogni mese. La distanza tra la propaganda del governo ed il principio di realtà è sempre più evidente.

Sono i paesi di origine, con la parziale eccezione della Tunisia, che pure rimane al di sotto delle attese del governo, se si guardano i rimpatri effettivi, che non permettono di eseguire tutti gli ordini di allontanamento dal territorio dello Stato, che adesso sono compresi anche all’interno del “provvedimento unificato” con il quale le Commissioni territoriali negano il diritto di asilo, “per manifesta infondatezza”, in Italia, come in Albania, dopo le procedure accelerate riservate alle persone che provengono da paesi di origine definiti come “sicuri”.

I rimpatri con accompagnamento forzato dall’Albania, previsti a migliaia, saranno impossibili, ammesso che in futuro si riesca a trasferire altri richiedenti asilo a Shengjin ed a Gjader, senza violare l’art.13 della Costituzione italiana, nella interpretazione che ne ha fornito la Corte costituzionale con la sentenza n.105 del 2001. Forse qualcuno pensa di utilizzare strumentalmente i cd. rimpatri “volontari”, ma questa prassi, diffusa in Libia e in Tunisia, non ha prospettive di applicazione concreta in Albania.

Una visita della delegazione di Volt Europa e dei suoi europarlamentari come raccontano al Fatto Quotidiano i due copresidenti, Daniela Patti e Guido Silvestri, ha svelato una realtà che dimostra la impraticabilità operativa del “modello Albania”, ben oltre la questione della provenienza da “paesi di origine sicuri”.

“Sulle procedure di rimpatrio non c’è un protocollo, dicono, che va ancora definito”, è stato spiegato loro dai funzionari dell’ambasciata e di polizia che li hanno accompagnati. “Non è chiaro se chi non ottiene l’asilo va prima portato in Italia o se potrà essere imbarcato grazie a un accordo con l’aeroporto di Tirana”. Secondo gli stessi europarlamentari, “ad oggi sono disponibili 200 posti per i richiedenti, appena 24 nel Cpr destinato alle persone da rimpatriare e altrettanti nella struttura detentiva presidiata dagli agenti della penitenziaria”.

Manca comunque una legge che disciplini i rimpatri dall’Albania: la disciplina dei CPR rimane ancora molto lacunosa, e questo potrebbe violare l’art.5 della Convenzione EDU. Anche se le modalità del trattenimento e dell’allontanamento forzato dall’Albania fossero ridefinite dal governo, con l’ennesimo decreto legge prossimo venturo, questo non eliminerebbe un possibile contrasto con la Direttiva europea 2008/115/CE sui rimpatri e con le Direttive n.32 e 33 del 2013, in materia di procedure e di accoglienza dei richiedenti asilo, che non prevedono, neppure con il concorso di Frontex, il rimpatrio di richiedenti asilo “denegati”, con accompagnamento forzato, da un paese terzo verso il paese di origine, prima di una decisione definitiva di un organo giurisdizionale sulla istanza di protezione.

Il progetto del governo italiano di trasferire richiedenti asilo in Albania non è stato chiuso, ma sembra ormai “congelato”. Dopo il fallimento delle missioni di nave Libra, che in un mese è riuscita a trasferire in Albania soltanto 20 persone, secondo quanto riporta Il Manifesto, i centri di Shengjin e di Gjader, dove proseguono costosi lavori di ampliamento, si stanno svuotando, prima dei contingenti di polizia, adesso con la partenza degli operatori e del personale di ‘Medihospes’, l’ente che ha vinto, con procedure da stato di emergenza, l’appalto per la gestione dei centri in Albania.

Come riferisce Fanpage, per il momento, non ci saranno ricambi e le autorità di governo sembrano rassegnate ad attendere le decisioni della Corte di Giustizia dell’Unione europea, anche perché, molto probabilmente, si è ben consapevoli della insostenibilità operativa (in alto mare) del modello Albania nei mesi invernali.

E la Corte di Cassazione, il prossimo 4 dicembre, ben difficilmente potrà evitare di adottare un ennesimo rinvio per questione pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea che, anche se deciderà con procedura accelerata, non potrà pronunciare una sentenza interpretativa per “sbloccare” i procedimenti attualmente sospesi dai giudici italiani, prima della primavera del prossimo anno.

Per il Tribunale di Roma remittente, “Nel caso specifico, la questione che qui si vuole sollevare «è anche tema che è in stretta correlazione con il giudizio di merito relativo alla valutazione della protezione internazionale richiesta.

Invero la decisione interlocutoria sulla sospensione, con la possibilità di allontanamento necessitato del richiedente asilo nel corso del giudizio (per carenza del titolo di soggiorno), impedirebbe l’accoglimento della richiesta protezione, ove se ne accertino le condizioni, qualora risulti, al momento della decisione di merito, che il richiedente sia già ritornato, anche contro la sua volontà, nel suo paese. […]

La presenza sul territorio assume dunque connotato di necessità al fine dell’eventuale accoglimento dell’istanza di protezione e in tal modo si evidenzia il rilievo che la decisione interlocutoria e lato sensu cautelare sulla sospensione del provvedimento amministrativo di rigetto assume anche rispetto al giudizio di merito […]» (Sent. n. 11399/24 cit.).

Per lo stesso Tribunale, che giudicava sulla scorta del Decreto interministeriale sui paesi di origine sicuri in vigore prima della promulgazione del Decreto legge m.145/2024, attualmente in fase di conversione davanti alle Camere, “Non è superfluo attirare l’attenzione della Corte sul fatto che nella prassi applicativa degli ultimi anni si assiste a un ricorso sempre più frequente a provvedimenti amministrativi di rigetto per manifesta infondatezza, i quali configurano oggi, più che una eccezione, addirittura la regola, sicché il principio europeo della sospensione automatica del provvedimento amministrativo impugnato appare oggi regressivo rispetto ai casi, che dovrebbero essere eccezionali, in cui si impone la necessità di verificare caso per caso se ricorrano le condizioni per una sospensione disposta dal giudice”.

qui il testo integrale:

La ritirata d’Albania, un altro fallimento epico del governo italiano. – ADIF