Lo Stato di Israele pretende di vantare un credito etico illimitato solo perché popolo nei tempi discriminato, o come popolo attaccato per la sua stessa esistenza, facendo riferimento ai campi di sterminio della Germania di Hitler e poi, impropriamente, alla giornata fatidica del 7 ottobre, come fosse un piccolo, nuovo olocausto.
Sembra che in base a questo credito possa compiere bombardamenti e stragi, affamare e assetare i civili, far esplodere i dispositivi-radio a distanza, uccidendo e mutilando, bloccare gli aiuti umanitari e affamare la popolazione palestinese: crimini contro l’umanità.
Se tutti i popoli che sono stati perseguitati per la loro etnia, religione, colore, potessero vantare lo stesso credito etico illimitato nel mondo ci sarebbe un caos assoluto.
Ad esempio, se i nativi americani uscissero dalle riserve e si ribellassero, per riprendersi le antiche terre: ci sarebbero inevitabilmente degli scontri e dei morti, anche fra i bianchi, ma nessun credito etico illimitato verrebbe concesso agli indiani, che verrebbero brutalmente repressi. Eppure ne avrebbero a fiumi.
Forse che il popolo armeno, perseguitato e massacrato dalle truppe turche, sarebbe autorizzato a rifarsi contro chi gli capita attorno? O i Kurdi, che hanno tanto sofferto, senza trovare mai territorio, diritti e identità, cosa sarebbero autorizzati a fare? O ancora i Tibetani? Cosa non sarebbero autorizzati moralmente a fare, gli ultimi indios dell’Amazzonia, per difendersi dagli incessanti assalti della speculazione del legname e dei pascoli, se non tirare le frecce a chi arriva? Lo fanno, ma lo Stato brasiliano manda i militari a reprimerli.
Allora perché solo allo Stato di Israele è concesso questo credito illimitato? Si tratta certo di un’anomalia, ma che ha precise ragioni storico-politiche. Da un lato il senso di colpa della Germania, dell’Italia e delle altre nazioni europee che collaborarono allo sterminio degli ebrei durante il nazi-fascismo; dall’altro l’interesse statunitense ad avere un alleato forte, che vigili i suoi interessi strategici sull’altra sponda del Mediterraneo, al quale si può perdonare quasi tutto; ancora, le radici stesse del sionismo, dell’idea del grande Stato di Israele, affondano nel tessuto economico-finanziario occidentale, che ne è il presupposto.
Ovviamente le radici storiche del quasi secolare conflitto arabo-israeliano sono molto complesse e non è mia idea esaminarle in questo scritto, il cui focus investe un’area culturale in senso lato. Naomi Klein, in un articolo pubblicato di recente su “The Guardian” e ripreso in Italia da “Internazionale” del 18-24 ottobre 2024, analizza l’uso della memoria da parte delle autorità israeliane, atto a mantenere aperto il trauma, piuttosto che cercare di elaborarlo. I musei sull’olocausto, sovrapposti a quelli sulle vittime del 7 ottobre 2023, l’uso degli stimoli sensoriali e della realtà virtuale, assolvono a questa funzione.
La Klein afferma, assieme a Marianne Hirsch, esperta di rievocazione del dramma alla Columbia University, che “se è vero (come dice la propaganda israeliana) che l’olocausto può tornare in qualsiasi momento e che Israele è l’unico baluardo per evitarlo, allora si costruisce una specie di alibi per qualsiasi cosa Israele intenda fare, un alibi di cui abbiamo visto le orribili implicazioni negli ultimi dodici mesi”.
Un altro dato culturale orribilmente interessante in questo secolare conflitto è quello relativo alla conta dei morti e, soprattutto, del diverso peso e valore dei morti stessi. Quando muoiono degli israeliani se ne dà il numero esatto e spesso perfino il nome, quando muoiono dei palestinesi si dà una cifra approssimativa, a mucchio, senza nome.
In Libano sono morte centinaia di persone e molte altre sono rimaste mutilate o ferite, a causa delle esplosioni contemporanee dei loro dispositivi “cercapersone”: una strage orribile, con una modalità di tipo terroristico, eppure se n’è parlato per pochi giorni ed è stata archiviata come un’azione del Mossad contro gli Hezbollah. Se in un qualsiasi paese europeo fossero esplosi contemporaneamente anche solo due o tre cellulari, staremmo per settimane a parlare delle vittime, una ad una, a interrogarci come sia stato possibile, di chi sia la responsabilità, chi possa aver pianificato un crimine così vigliacco e sinuoso, a dar la caccia ai presunti cyber-terroristi… Come se a poco più di duemila chilometri a sud est i morti avessero un altro peso: fossero scontati, senza importanza.
A pensarci più a fondo, questa macabra diseguaglianza non è che lo specchio della diseguaglianza, su base etnico-religiosa, fra israeliani e palestinesi durante la vita. I primi con il diritto all’acqua per i campi, alla raccolta delle olive, della frutta; i secondi con l’acqua razionata, sventrati dalle mitraglie durante la raccolta delle olive, perché “si appostavano fra gli alberi”. I primi liberi di circolare, i secondi sottoposti ad incessanti, vessatorie limitazioni alla libertà di movimento. Si potrebbe continuare, perché l’apartheid pervade la vita delle persone in tutti i contesti, discriminandole su base razziale.
Questa psicopatica idea del morto buono e del morto cattivo o, peggio ancora, del nostro defunto eroe e gli altri derubricati a “mucchio indistinto di selvaggi”, ci riporta al pensiero colonialista eurocentrico, diventato poi genericamente occidentale, con l’apporto nell’immaginario collettivo del cinema americano, con i suoi indiani urlanti senza volto che cadono a grappoli, davanti alle scariche di fucileria; in seguito soppiantati da altri generi thriller, oggi più intriganti, ma in cui molto spesso riemergono i fantasmi degli apache da sterminare, sotto forma di arabi, di orientali, di extraterrestri, o di eterne spie russe.
Non l’immaginazione al potere degli anni Settanta dello scorso secolo, ma il Potere controlla l’immaginazione, negli anni venti del ventunesimo secolo.
Così anche un individuo incriminato dalla corte penale internazionale dell’Aia per crimini contro l’umanità e tentativo di genocidio, come il presidente Netanyahu, potrebbe diventare un supereroe nella mente appiattita di chi crede di essere sempre assediato da primitivi miscredenti.
L’Unione Europea e i suoi singoli stati sono chiamati in causa, sempre che realmente scevri dall’egemonia nordamericana. La cultura europea ha mantenuto, ultimamente con difficoltà, un certo grado di pluralismo culturale, con differenze più o meno rilevanti tra paese e paese, ma riceve sempre più spinte autoritarie e repressive del dissenso, propense ad incentivare gli armamenti ed un’economia di guerra.
Diventa importante che la cultura e l’arte s’impegnino seriamente per la pace e per l’equilibrio del pianeta, per evitare che le becere scorie di ideologie fasciste, colonialiste, militariste, patriarcali e violente riprendano sopravvento nel tessuto sociale odierno, che appare spesso anestetizzato e confuso, o al meglio dubbioso e diviso. E’ il momento di creare.
Non facciamoci chiudere dalla non-cultura distruttiva della guerra!