Con un emendamento presentato da Fratelli d’Italia in sede di conversione del decreto legge n.145/2024 che trasferisce la competenza per la convalida dei trattenimenti nei Cpr alle Corti d’Appello, a fronte delle decisioni di non convalida del trattenimento nel centro di Gjader in Albania, adottate dal Tribunale di Roma, si è eliminata la competenza delle stesse Corti di Appello, prevista nella versione originaria del decreto, per i ricorsi contro i dinieghi pronunciati dalle Commissioni territoriali, che dunque ritornerebbe alle sezioni specializzate per l’immigrazione dei Tribunali ordinari.
La conversione del decreto legge 145/2024 è prevista per il 25 novembre, data in cui il governo potrebbe ricorrere alla fiducia per garantirne il passaggio in Parlamento. Secondo il ministro della giustizia Nordio, “abbiamo tolto i reclami contro i provvedimenti delle sezioni specializzate, come chiedevano i loro presidenti. E l’eventuale devoluzione delle convalide può essere una maggiore garanzia giurisdizionale“. E’ vero invece l’esatto contrario per la minore possibilità di esercizio dei diritti di difesa nei procedimenti davanti alla Corte di appello in composizione monocratica, soprattutto nei tempi velocissimi delle procedure di convalida dei trattenimenti, imposti dall’art.13 della Costituzione. Mentre le decisioni di manifesta infondatezza che continueranno ad essere adotttate dalle Commissioni territoriali, a meno che non venga concessa una sospensiva in sede di ricorso, saranno immediatamente esecutive, e potranno portare all’esecuzione delle misure di allontanamento forzato, e dunque al rimpatrio, anche in pendenza del tempestivo ricorso giurisdizionale contro il provvedimento negativo di diniego.
Si dovrà comunque verificare la portata operativa delle disposizioni transitorie che dovranno essere previste sul trasferimento di competenze alle Corti di appello. Di certo, se si voleva il risultato di ottenere dalle Corti di appello una serie di convalide dei trattenimenti nelle procedure accelerate in frontera, in particolare in quelle (ancora futuribili) che si dovrebbero effettuare nel centro per i rimpatri di Gjader (in Albania), il groviglio giuridico determinato dall’abbandono del Decreto legge n.158/2024, e dalla sua parziale trasposizione come emendamento nel Decreto legge n.145/2024, determinerà una totale incertezza sui tempi e sugli effetti di questa ennesima decretazione d’urgenza, peraltro priva di norme di attuazione e di copertura finanziaria. Che non presenta solo aspetti procedurali, di trasferimento delle competenze in materia di convalida del trattenimento amministrativo dei richiedenti asilo, ma comporta una grave lesione dei diritti di difesa e più in generale produce squilibri nel sistema processuale italiano. con l’anomalia di una corte di appello chiamata ad operare, in composizione monocratica e in tempi brevissimi (48 ore) su misure limitative della libertà personale (sottoposte ai rigidi principi di garanzia dell’art.13 della Costituzione). Se si pensa che con questa nuova normativa si possa agevolare l’avvio del Protocollo Italia-Albania si rischia di restare nella bolla della propaganda governativa, perchè appare evidente che per la riorganizzazione a regime delle attività delle Corti di appello, che entro 48 ore dalla adozione, dovrebbero convalidare in composizione monocratica i provvedimenti di trattenimento amministrativo disposti dai questori, ci vorranno molti mesi, mesi nei quali i centri in Albania resteranno vuoti, con un danno erariale sempre più rilevante.
Si profila a questo punto il rischio che, anche in caso di mancata convalida del decreto questorile di trattenimento, le Commissioni territoriali procedano ad un diniego lampo della richiesta di asilo per manifesta infondatezza, anche nel giro di due giorni dall’avvio della procedura, quando la persona provenga da un paese di origine ritenuto “sicuro”. E questo potrebbe comportare, in virtù del cd. “provvedimento unificato” adottato dalla Commissione territoriale, un nuovo trattenimento amministrativo, questa volta in un CPR, come si è già verificato a Caltanissetta, e come potrebbe verificarsi in futuro nel CPR di Gjader in Albania, con la possibilità di immediato rimpatrio del richiedente asilo, prima che sul suo ricorso si sia pronunciato un giudice, almeno in primo grado, se non con una sentenza definitiva. Le decisoni sulle questioni interptretative proposte dai giudici italiani alla Corte di Giustizia UE non potranno comunque prescindere dalla precedente giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, che in caso di diniego sull’istanza di protezione internazionale, stabilisce precise garanzie per l’eventuale rimpatrio con accompagnamento forzato del richiedente asilo denegato. Garanzie che assumono un rilievo ancora maggiore ove si pensi alla esecuzone di rimpatri forzati direttamente dal territorio albanese, come previsto dal Protocollo Italia-Albania e dalla legge di ratifica n.14 del 21 febbraio 2024..
Con una sentenza del 19 giugno 2018 (resa dalla Grande Sezione) della Corte di Giustizia dell’Unione europea, sulla adozione di una decisione di rimpatrio anteriore all’esito del ricorso avverso il rigetto della domanda di protezione internazionale da parte dell’autorità competente, si tracciano linee guida che dovrebbero essere tenute ben presenti da parte dei giudici nazionali. E che ben difficilmente potranno essere smentite da altre decisioni della stessa Corte di Lussemburgo, almeno fino a quando la normativa europea in materia di rimpatri e procedure per il riconoscimento della protezione internazionale non sarà modificata per effetto dei nuovi Regolamenti previsti dal Patto sulla migrazione e l’asilo concluso nel maggio di quest’anno, proprio alla vigilia delle elezioni europee.
I giudici di Lussemburgo hanno ritenuto che una decisione di rimpatrio possa essere adottata, in linea di principio, nei confronti di un cittadino di un paese terzo, a seguito del rigetto stesso o cumulativamente con il medesimo in un unico atto amministrativo. ma aggiungono che nel caso di “ricorsi previsti all’articolo 13 della direttiva 2008/115 contro le decisioni attinenti al rimpatrio, al pari di quelli contemplati all’articolo 39 della direttiva 2005/85 avverso le decisioni di rigetto delle domande di protezione internazionale, le loro caratteristiche devono essere determinate conformemente all’articolo 47 della Carta, a termini del quale ogni individuo i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi ad un giudice, nel rispetto delle condizioni previste dall’articolo medesimo (v., in tal senso, sentenze del 18 dicembre 2014, Abdida, C‑562/13, EU: C:2014:2453, punto 45, e del 17 dicembre 2015, Tall, C‑239/14, EU:C:2015:824, punto 51)”. E ancora, “Ai sensi della giurisprudenza della Corte, qualora uno Stato membro decida di allontanare un richiedente protezione internazionale verso un paese in cui esistano seri motivi per ritenere che questi si trovi esposto al rischio reale di trattamenti contrari all’articolo 18 della Carta, nel combinato disposto con l’articolo 33 della Convenzione di Ginevra, ovvero all’articolo 19, paragrafo 2, della Carta, il diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva, previsto all’articolo 47 di quest’ultima, esige che il richiedente medesimo disponga di un ricorso con pieni effetti sospensivi contro l’esecuzione della misura che consenta il suo rimpatrio (v., in tal senso, sentenze del 18 dicembre 2014, Abdida, C‑562/13, EU:C:2014:2453, punto 52, e del 17 dicembre 2015, Tall, C‑239/14, EU:C:2015:824, punto 54).
In base all’art.47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, “ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni persona ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare”. Non si vede come si possa parlare di ricorso effettivo nel caso dei richiedenti asilo denegati, trattenuti nei CPR, in particolare nel centro per i rimpatri di Pian del Lago a Caltanissetta, e poi rimpatriati, o a rischio di rimpatrio, in Tunisia ed in Egitto, con procedure semplificate frutto degli accordi bilaterali tuttora vigenti, magari pochi giorni dopo il loro arrivo a Lampedusa. Ed in prospettiva, lo stesso dubbio si porrà per i richiedenti asilo provenienti da paesi di origine sicuri e trasferiti in Albania, dopo essere stati intercetttati o soccorsi in mare da unità militari italiane. La nozione di ricorso effettivo ai sensi dell’articolo 13 della Convenzione EDU implica che il ricorso sia di natura tale da impedire l’esecuzione di misure contrarie alla Convenzione e le cui conseguenze siano potenzialmente irreversibili. Pertanto, l’articolo 13 preclude l’esecuzione di tali misure prima che le autorità nazionali abbiano esaminato la possibile violazione di diritti garantiti dalla Convenzione, fino ad una decisione definitiva sull’istanza di protezione.
Secondo la Corte di Giustizia dell’Unione europea “La direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, nel combinato disposto con la direttiva 2005/85/CE del Consiglio, del 1° dicembre 2005, recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato, nonché alla luce del principio di non-refoulement e del diritto ad un ricorso effettivo, sanciti dall’articolo 18, dall’articolo 19, paragrafo 2, e dall’articolo 47 della Carta, dev’essere interpretata nel senso che non osta all’adozione di una decisione di rimpatrio ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva stessa, nei confronti di un cittadino di un paese terzo che abbia proposto domanda di protezione internazionale, direttamente a seguito del rigetto di tale domanda da parte dell’autorità competente ovvero cumulativamente con il rigetto stesso in un unico atto amministrativo e, pertanto, anteriormente alla decisione del ricorso giurisdizionale proposto avverso il rigetto medesimo, subordinatamente alla condizione, segnatamente, che lo Stato membro interessato garantisca la sospensione di tutti gli effetti giuridici della decisione di rimpatrio nelle more dell’esito del ricorso, che il richiedente possa beneficiare, durante tale periodo, dei diritti riconosciuti dalla direttiva 2003/9/CE del Consiglio, del 27 gennaio 2003, recante norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri,e che sia in grado di far valere qualsiasi mutamento delle circostanze verificatosi successivamente all’adozione della decisione di rimpatrio, che presenti rilevanza significativa per la valutazione della situazione dell’interessato con riguardo alla direttiva 2008/115 e, in particolare, all’articolo 5 della medesima, cosa che spetta al giudice del rinvio verificare”.
In ogni caso il richiedente asilo rimane tale fino a quando non sia stata ancora adottata una decisione definitiva in merito alla sua istanza, e dunque non può essere considerato alla stessa stregua di un immigrato irregolare da espellere, per effetto della prima decisione negativa della Commissione territoriale che opera nella procedura accelerata in frontiera destinata alle persone che provengono da un paese di origine individuato per decreto ministeriale come “sicuro”, almeno fino a prova contraria. Prova che deve essere ammessa prima di mettere in esecuzione misure di allontanamento forzato, fermo restando che la preparazione di tali misure, ed i contatti per i documenti necessari al rimpatrio con le rappresentanze diplomatiche o consolari dei paesi di origine, espongono i richiedenti asilo, che tali rimangono fino alla pronuncia definitiva sul loro ricorso, ad un grave ulteriore pregiudizio che possono subire dopo l’esecuzione dell’eventuale accompagnamento fozato nel paese di origine contro il quale hanno chiesto protezione.