Sabato 16 novembre alle 11:30, presso la Casa delle Donne di Milano, ho partecipato alla presentazione del libro “Combattenti per la Pace”, ispirato all’omonimo Combatants for Peace, movimento pacifista nonviolento israelo-palestinese famoso per il suo instancabile lavoro di riconciliazione che vede il costante impegno di pacifisti palestinesi e israeliani dichiaratamente contro l’occupazione coloniale e gli insediamenti illegali israeliani. A presenziare ci sarebbero dovute essere Ester Koranyi (pacifista israeliana) e Rana Salmar (pacifista palestinese), co-direttrici del movimento, ma purtroppo a Rana hanno spostato il volo (arrivando direttamente a Torino per la successiva presentazione) e quindi era presente solo Ester, che pure ha subito ritardi per il suo arrivo in Italia. Dopo la conferenza ho avuto il piacere di intervistare Ester, che con umiltà e determinazione ha fatto emergere il vero ostacolo alla pace, ovvero l’occupazione, la violenza razzista dei coloni – “oltranzisti” o “moderati” che siano – e dell’esercito. Nell’intervista emerge un dato significativo: anche gli israeliani più convinti contro l’occupazione coloniale faticano a decolonizzarsi sia nelle pratiche sia nella mentalità, anche quando sono in totale buona fede.
Inizio con una domanda provocatoria. Si può essere ebrei ed attivisti israeliani per la pace senza essere sionisti?
È una domanda buona. Io mi domando cosa voglia dire essere sionisti. Nel nostro movimento “Combattenti per la Pace” ci sono persone che dicono di essere sioniste (anche se i sionisti di destra negano che lo siano) e altri che affermano di essere fortemente anti-sionisti pur essendo ebrei. Io credo che anche la popolazione ebrea abbia il diritto di vivere in Israele, ma questo diritto deve essere diviso con i palestinesi. Questo è sionismo? Non lo so. Personalmente non credo che per forza tutti gli ebrei debbano vivere in Israele. Mia sorella per esempio vive in Ungheria e va benissimo così. Non credo al nazionalismo israeliano.
Un altro tema che negli anni scorsi ha fatto molto scalpore, ma che ultimamente è diventato un tabù, è quello del Muro Cisgiordano che viola il diritto internazionale, che è dichiarato illegale da varie mozioni Onu, che Israele viola deliberatamente. Quale posizione avete e quali azioni avete intrapreso come “Combattenti per la Pace”?
Noi crediamo che si debba trovare una soluzione politica per il conflitto: che siano due Stati o forse uno Stato multietnico e democratico con diritti per tutti. Questa soluzione politica porterà alla fine del muro perché non ci sarà un “pericolo palestinese” o un “pericolo israeliano”. Sarà un muro da distruggere! Oggi possiamo dire che la giustificazione del muro come “argine al terrorismo” non è vera. Basta vedere quello che è successo a Jafa il mese scorso quando miliziani da Hebron hanno ucciso sei ebrei ed un palestinese. Il Muro Cisgiordano serve l’occupazione coloniale e non la sicurezza degli israeliani. Nel 2016 e nel 2019 abbiamo fatto delle dimostrazioni vicino al muro proprio per richiamare l’attenzione sull’importanza di abbatterlo in quanto strumento di apartheid razzista che divide la gente.
Hai parlato di attacchi terroristici avvenuti, che spesso nascono in risposta all’occupazione coloniale israeliana. Come “Combattenti per la Pace”, le risposte da Gaza le definite come espressione del “terrorismo palestinese” o come espressione della “resistenza palestinese”?
Non abbiamo una posizione univoca e c’è ancora molto dibattito all’interno. Ci saranno palestinesi che credono che questo sia un modo per combattere l’occupazione, però tutti siamo d’accordo che è ingiustificabile qualsiasi attacco sui civili. Io personalmente penso che anche se l’esercito israeliano porta avanti un’oppressione violenta, non si debba rispondere nello stesso modo. Spesso i soldati israeliani sono giovani che non hanno scelto di arruolarsi, ma sono obbligati. C’è una linea molto sottile che attraversa civili e soldati sia nella società palestinese sia nella società israeliana. I refusenik israeliani (obiettori di coscienza) non hanno vita facile: se la loro motivazione è la pace in senso vago, non hanno grandi problemi; se invece la loro motivazione è il rifiuto di servire l’occupazione, subiscono persecuzione.
Durante la conferenza alla Casa delle Donne hai parlato della tua esperienza di volontariato nei kibbutz. L’idea della creazione dei kibbutz1 è da attribuire al movimento sionista, nato con l’obiettivo di dare vita a uno Stato Ebraico in Palestina. Anche in questo caso la situazione è controversa: ci sono kibbutz che hanno avuto uno sviluppo legale, altri che sono sorti su insediamenti illegali e altri ancora che vengono definiti – insieme ad altri insediamenti coloniali – come “colonie moderate” da alcuni settori della società israeliana. Come si chiama il kibbutz in cui hai lavorato? È una comunità che lavora per la pace o anche essa si trova in questo contesto controverso? C’è una distinzione tra vari kibbutz?
Il kibbutz si chiama Oz Madav e si trova in territorio israeliano, ovvero all’interno del confine stabilito dalla Linea Verde2, vicino ad Eilat3. Fortunatamente ad Oz Madav – a differenza di altri kibbutz – non è presente la colonizzazione, se pensiamo che non tutto il territorio della Cisgiordania debba essere Palestina. Noi crediamo che anche Israele abbia il diritto di esistere, ma nei confini della Linea Verde, cosa su cui i politici devono ancora decidere. Ad Oz Madav si fanno un po’ di cose per la pace, anche se poche. Ci sono abitanti del kibbutz che fanno dimostrazioni nelle strade vicine per la pace tra Palestina e Israele.
Qual è il messaggio che ti senti di lasciare a questa intervista sul tema della risoluzione del conflitto e del genocidio in corso a Gaza?
Innanzitutto bisogna cessare il fuoco! Ma voglio lanciare un messaggio anche agli italiani, per cosa si può fare dall’estero. Si può scegliere il punto di vista dell’umanità e della riconciliazione senza schierarsi per forza tra pro-Israele e pro-Palestina. Noi, vivendo là, vediamo che questa polarizzazione non ci aiuta. Anche alcuni miei amici palestinesi sostengono questo. Vedere tante manifestazioni pro-Palestina che non danno spazio ad Israele non ci aiuta perché sia palestinesi sia israeliani hanno diritto a rimanere in quella terra. Vogliamo chiedere alla gente all’estero di continuare a parlare di umanità come fondamento per una possibile soluzione pacifica per due popoli e non per un solo popolo. Si deve chiedere la pace tra Palestina e Israele mettendo al centro il grosso ostacolo alla pace, ovvero l’occupazione coloniale israeliana.
Cosa possiamo fare in modo pratico?
Si può chiedere di non comprare prodotti provenienti dalle colonie israeliane, non dando soldi ai coloni. Questa è una scelta di consumo etico che si può fare anche all’estero.
Quindi anche l’adesione alla campagna BDS?
Il Movimento BDS vuole boicottare tutta Israele e noi siamo contro questo. Noi chiediamo il boicottaggio solo dei prodotti delle colonie illegali israeliane, oltre a non farle entrare nel Trattato di Schengen. I coloni israeliani – riconosciuti come “criminali di guerra” secondo il diritto internazionale – devono capire che c’è un prezzo per quello che fanno. La loro violenza e il loro odio verso i palestinesi non possono passare inosservati in quanto fatti conniventi all’occupazione coloniale.
1# Ruolo centrale nella realizzazione di queste realtà comunitarie è stato il Fondo Nazionale Ebraico, istituito a Basilea nel 1901 con lo scopo di acquistare i terreni in Palestina per permettere il trasferimento delle comunità ebraiche europee. Il primo kibbutz, chiamato Degania Aleph, è stato fondato nel 1909.
2# “Linea Verde”, ovvero “il confine esistente prima del 1967”, è ancora considerata un tema controverso in termini giuridici. Quando si parla di “confine del 1967” si commette un errore storico, giuridico e geografico facendo riferimento alla Risoluzione 181 dell’ONU, come se avesse disposto la spartizione della Palestina. In realtà la Risoluzione 181 dell’Onu non dispone nessuna partizione e non ha nemmeno raccomandato quel confine anche perché, giuridicamente, Israele non ha confini. I cosiddetti “confini pre-5 giugno 1967” non sono altro che la linea dell’armistizio con cui è avvenuta l’acquisizione giuridicamente inaccettabile del 78% dei territori palestinesi (non del 56%, che “disponeva” la risoluzione ONU) su cui ad oggi non vige alcun trattato di pace. Israele i confini non li ha se non nei suoi progetti e nelle sue mappe coloniali risalenti ben prima del 29 novembre 1947, ovvero con il Piano Dalet.
3# Eilat è una città dello stato di Israele posta sulle rive del Mar Rosso. Abitata da circa 50.000 persone, la città è parte del deserto meridionale del Negev ed è adiacente al villaggio egiziano di Taba a sud e alla cittadina portuale giordana di Aqaba ad est, dove si trovano i resti del porto e dell’abitato romano. Citata nell’Antico Testamento con il nome di “Ezion Geber”, assunse importanza ai tempi del Regno di Israele e in particolare sotto il regno di Salomone (970 – 928 a.C.), quando fu usata come porto per i commerci verso la Penisola arabica e il Corno d’Africa anche grazie alle vicine miniere di rame di Timna. Fu importante centro militare in epoca romana con il nome di “Aelana”.