Nella biblioteca dell’Istituto Gramsci Siciliano è stato appena presentato il libro di Antonio Minaldi Del femminile e delle rivoluzioni. Per un costituzionalismo etico e rivoluzionario edito da Multimage.
La sua struttura si articola in due parti. La prima consiste in una disamina del femminile, inteso come paradigma antropologico e politico, che si presta ad una rivoluzione: la creazione di una società della cura alternativa all’attuale società, patriarcale e capitalistica, del profitto e dello spreco.
Il retroterra teorico di questa proposta si colloca nel femminismo della differenza (Irigaray, Muraro, Cavarero e tante altre) e nella rilettura della storia dell’evoluzione biogenetica della specie umana fatta da Bruna Tadolini, nel suo splendido libro L’evoluzione al femminile.
Questa prima parte si chiude con un saggio di Giuliana Mieli che fa il punto sulla scelta del nuovo cardine teorico, approfondendo il concetto di maternità simbolica in quanto fondativo di una politica alternativa all’egotismo dominante.
La seconda parte del volume consiste nell’applicazione del paradigma proposto a diversi ambiti disciplinari: un approccio etico alla rilettura delle diverse Carte Costituzionali e alla individuazione dei diritti, che vada oltre l’eguaglianza formale per una valorizzazione delle diversità; la consapevolezza della necessità di un meticciato culturale per la costruzione di una cittadinanza globale, che smascheri le ambiguità di formule come tolleranza e accoglienza di fronte alle migrazioni che stanno segnando una svolta epocale nella nostra storia; una convivenza etologica planetaria, per la quale non basta parlare di diritti degli animali, in quanto i loro diritti coincidono con i nostri; il superamento dell’anarcocapitalismo selvaggio verso un’economia del dono (e qui l’esempio ci viene dalle compagne curde del Rojawa nel Villaggio delle Donne, Jinwar); e, cosa che sta molto a cuore all’autore, la condanna e il superamento del giustizialismo verso una comprensione di bisogni desideri scelte e comportamenti fondata sull’empatia.
L’intento del libro non è per nulla quello di profondersi in un’analisi teorica fine a se stessa: marxianamente (e marxisticamente) lo scopo è rintracciare ove possibile linee guida per la prassi, per la costruzione di un nuovo soggetto rivoluzionario multiplo e complesso, muovendo anche dal concetto di moltitudine elaborato da Antonio Negri nei suoi ultimi scritti.
E proprio a tal fine si modulano le caratteristiche della scrittura di Minaldi. Il tono – ed è questo un grande pregio del libro – non è mai assertivo né ha pretese di esaustività, ma si apre, problematico e interlocutorio, al confronto dialogico e dialettico sulle proposte avanzate. La scrittura è agile e piana anche quando affronta temi specialistici di diritto e di economia, proprio perché il desiderio di farsi capire corrisponde a quello di allargare la partecipazione in vista dell’azione politica comune.
Anche l’accurato impianto storico, con cui vengono rivisitate le radici del costituzionalismo o l’evoluzione capitalistica, è funzionale alla comprensione della crisi contemporanea e al tracciato di un progetto antagonista.
Alla “scoperta” (perché questo è per il Nostro) del femminile, nell’individuo e nella comunità, si lega indissolubilmente quella della nonviolenza, faticosa e problematica per chi come Minaldi ha un trascorso di marxista-leninista e poi di appartenenza ad Autonomia Operaia negli anni Settanta. E perciò ancor più coraggiosa e vissuta quasi scarnificandosi.
La nonviolenza di Minaldi non ha fondamento né moralistico né religioso: è una scelta etica nella misura in cui costituisce oggi per lui l’unica alternativa politica. È la sola postura etica possibile per ricreare il comunismo dopo il crollo del Muro, un comunismo libertario antiautoritario circolare, nonviolento appunto.
C’è, però, un limite in questo libro, limite in qualche misura rilevato anche da Paola Nugnes nella sua prefazione. Minaldi, non affronta qui (anche se lo farà in un prossimo scritto ancora in bozze e dal titolo provvisorio) gli ultimi sviluppi della riflessione e delle pratiche delle donne: dopo l’emancipazionismo e il pensiero della differenza, il femminismo intersezionale. Conosce Angela Davis, Judith Butler e Bella Hooks, ma decide di non considerarle punti di riferimento, almeno al momento, per la sua proposta di costruzione del nuovo paradigma.
Personalmente, invece, sono convinta che il concetto intersezionale di identità di genere, pensato inizialmente dalle femministe lesbiche afroamericane negli Stati Uniti, ma oggi accolto in tutto il mondo, per esempio nel movimento internazionale Non Una Di Meno, sia indispensabile per individuare l’intreccio delle forme di oppressione patriarcale e capitalistica che si annida nella costruzione sociale delle nostre identità (sesso, etnia, lingua, religione, classe, appartenenza politica, estrazione culturale, abilità e disabilità). Solo decostruendo un’identità complessa e posticcia e ricostruendo insieme una moltitudine fluida potremo pensare e realizzare il nuovo soggetto rivoluzionario.
Auspico una complementarità fra tutte le riflessioni femminili che in due secoli si sono succedute: sull’emancipazione (di cui le donne hanno ancora bisogno in tante aree del pianeta e del Sud del mondo e per cui devono ancora lottare), sulla differenza (che significa rifiuto della violenza e del potere, come ci ha insegnato Virginia Woolf), sulla identità di genere e la intersezionalità (che consente di fare i conti con una società complessa e, lo si voglia o non lo si voglia, “liquida”; di non rivendicare alcun primato ontologico legato al maternage, ma accogliersi reciprocamente e meticciarsi – anche qui – nella molteplicità).
Ecco, dunque, quello che il nostro Autore scrive sul paradigma intersezionale nell’opera ancora in fieri.
“Una ipotesi di lettura e di proposta politica di segno molto diverso rispetto a quella insita nel politicamente corretto è quella che fa capo al paradigma della intersezionalità, termine utilizzato per la prima volta dall’attivista statunitense Kimberlé Crenshaw.
Si tratta di una teoria interpretativa che suggerisce come l’identità del soggetto non può essere semplificata attraverso una sola categoria di ordine sociale, culturale, politico, o anche di tipo naturale o biologico. Uno stesso individuo può subire anche molteplici forme di dominio, di discriminazione e di sfruttamento in ragione del fatto di essere, per esempio, uomo o donna, bianco o nero, lavoratore autonomo o operaio, cristiano o musulmano, e tanto altro ancora.
L’importanza della teoria della intersezionalità è quella di dare una interpretazione della identità come di qualcosa di molto complesso […] e in continuo divenire, in quanto frutto del […] comporsi dinamico di molteplici appartenenze, rispetto alle quali fanno gioco sia le condizioni oggettive sia le scelte soggettive.
Questo modo plurale e complesso di concepire l’identità della persona cambia anche la prospettiva del rapporto con l’altro. Tra il sé e l’altro non si pone l’abisso di una incolmabile e statica estraneità, ma il gioco dinamico e dialettico tra una parziale condivisione identitaria e una altrettanto parziale diversificazione. Una (mutevole) parte di me è sempre anche nell’altro e una parte dell’altro è sempre anche in me, senza che vi sia mai completa identificazione, come a togliere la irriducibilità della singola persona umana, ma neppure lontananza tale da rendere l’altro irriconoscibile o indifferente.
Dal punto di vista dei possibili esiti politici, la teoria della intersezionalità è importante perché, proprio in ragione della molteplicità delle appartenenze, pone il problema dei rapporti tra i vari movimenti che si battono per i diritti delle minoranze, oltre il possibile incontro occasionale o puramente solidaristico tra realtà che hanno differenti obiettivi. Non si tratta prioritariamente di costruire alleanze politiche tra diversi ma di valorizzare il complesso intreccio delle appartenenze tra soggettività nomadi e plurali. […]”