Con l’approdo a Baku e il passaggio in tre Stati petro-metaniferi (Egitto, Dubai e Azerbaigian), la commedia delle COP sul clima, replicata da 32 anni senza quasi mai nemmeno nominare l’oggetto di cui avrebbero dovuto occuparsi (la fine dei combustibili fossili) è approdata alla farsa: nell’introdurne la 29esima edizione il Presidente del Paese ospite ha spiegato che i combustibili fossili “sono un dono di Dio”. Si rivolgeva a un pubblico ben disposto: ad accompagnare i pochi “leader” mondiali presenti o a rappresentare quelli assenti c’era un esercito di lobbisti dei fossili che hanno da tempo trasformato le COP in una fiera-mercato dei fossili per farci i loro affari. Per l’Italia, sponsorizzati dal governo, c’erano Eni, Snam, Saipem, Enel, Edison, A2A e altri, tutti a sostenere la breve comparsata di Giorgia Meloni e la sua tiritera contro l’ambientalismo “ideologico” contrapposto al suo, quello “pragmatico”.

Pragmatico, per Giorgia, significa nucleare: fusione (che non esiste: la promettono da 70 anni entro i successivi 10) e fissione (il prototipo dei 4 impianti che la Francia aveva rifilato a Berlusconi è ancora in costruzione a Flamanville, con costi triplicati. E non esistono ancora neanche i mini-reattori per spargere radiazioni in ogni angolo del territorio nazionale). Poi la cattura del carbonio, costosa e pericolosa: ne sono già stati chiusi diversi impianti per inefficienza; poi ancora, i biocarburanti, che degraderebbero il poco suolo coltivabile lasciato ancora libero dagli allevamenti intensivi e l’idrogeno, che non è una fonte energetica (ma lei non lo sa). Per le rinnovabili non c’è fretta, ma resta il gas, di cui Meloni, con il “piano Mattei” sta facendo incetta in tutta l’Africa perché non può più comprarlo dalla Russia e quello degli Stati Uniti (grande posta in gioco della guerra in Ucraina) costa il triplo. Dunque, del gas, che con le sue fughe è un fossile anche più pericoloso del carbone, non si farà a meno, bando alla transizione in tempi brevi…

Se questa era la farsa (o una sua parte) messa in scena, la tragedia dell’ambientalismo “ideologico”, era altrove: negli uragani che sconvolgono il pianeta, dagli Stati Uniti alle Filippine; nei diluvi che travolgono ripetutamente intere regioni, da Valencia alla Romagna; nella temperatura ormai invivibile di molti Paesi, dal Pakistan alla Somalia, nello scioglimento dei ghiacciai che prosciuga e poi fa tracimare i fiumi da cui dipende il cibo di tante popolazioni e in quello delle calotte polari e del permafrost artico, che farà aumentare il livello dei mari fino a sommergere centinaia di città, sia ricche che povere, e interi Paesi e negli incendi che devastano foreste e ogni forma di vita. Ma soprattutto, nei milioni di esseri umani, uomini, donne e bambini, costretti ad abbandonare le terre dove sono cresciuti senza sapere dove andare.

Perché nessuno li vuole; da tempo, ben prima delle presidenze Trump, i suoi predecessori, altri governi e altri Paesi avevano già varato dei piani per respingerli, impegnandovi montagne di denaro e facendosene un vanto con i loro elettori. D’altronde la militarizzazione dell’economia, della vita associata e del pensiero che accompagna i conflitti in corso e che condanna qualsiasi iniziativa per contenere la catastrofe climatica che incombe sul pianeta non fa che sviluppare armi e strumenti di sorveglianza da usare per combattere i migranti di oggi e quelli di domani.

Aspettarsi una svolta dalla ripetizione di un rito inutile e ipocrita e dai governi che l’hanno messo in scena è vano. Se ne è accorto un gruppo di personalità che ha chiesto ufficialmente un cambio di passo. Ma dovrebbe essere chiaro che ormai la questione deve essere presa in mano da chi è veramente interessato a una vera svolta. Ma chi?

I giovani senza un futuro, anzi, con un futuro di temperature insopportabili e disastri “ambientali” sempre più intensi e frequenti. E tutti coloro già oggi colpiti da quei disastri, come da quelli provocati da un’economia che il pianeta non è più in grado di reggere: scomparsa di mercati e di posti di lavoro e rotture di forniture, cose in parte già “assaggiate” ai tempi del covid, ma ora destinate a moltiplicarsi.

E come? All’inizio con le mobilitazioni di oggi per contenere o rimediare ai disastri già in essere. Poi, poco a poco, per prevenirli con mobilitazioni che creino organizzazione, rivendicazioni, progetti, programmi. Tutte cose che passano e passeranno sempre più attraverso una revisione forzata degli stili di vita e una riduzione degli sprechi e dei consumi superflui: non per le prediche o le scelte etiche di alcuni, ma per la devastazione dei territori e le difficoltà di sostenere la convivenza nelle forme a cui siamo abituati. Per questa via, che è il difficile ma ineludibile adattamento di ogni insediamento alle conseguenze specifiche con cui la crisi climatica si manifesterà in ogni territorio, le misure promosse dal basso per farvi fronte avranno sia come premessa che come conseguenza anche quelle di un accesso e di un consumo sempre più ridotti sia delle risorse della Terra che di produzioni tanto superflue quanto devastanti: la mitigazione elusa sistematicamente dalle COP. Ma è una corsa contro il tempo.