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SAVE THE CHILDREN: “Bambini costretti a fuggire dalle proprie case, a interrompere il percorso scolastico e a dipendere dagli aiuti umanitari”

Quest’anno circa 1 bambino su 8 a livello globale è stato colpito in modo significativo dai 10 maggiori eventi meteorologici estremi. Mentre i leader mondiali si preparano a riunirsi alla COP29 in Azerbaigian, una nuova analisi dell’Organizzazione ha mostrato che dall’1 gennaio al 29 ottobre, circa 300 milioni di bambine e bambini in Asia, Africa e Brasile – circa il 12,5% della popolazione infantile totale (2,4 miliardi) – sono stati colpiti dai peggiori eventi climatici estremi

Con la crisi climatica, gli eventi meteorologici estremi stanno diventando sempre più frequenti e gravi, e sono aumentati a livello globale di cinque volte negli ultimi 50 anni. Spesso sono i più piccoli a subire le conseguenze peggiori di questi disastri. Save the Children sottolinea come quest’analisi evidenzi l’urgenza di porre i bambini al centro di ogni politica climatica e di ogni decisione che si prenderà alla COP29, al vertice COP29 sui cambiamenti climatici che si terrà a Baku, in Azerbaigian. In particolare, poiché la maggior parte dei bambini colpiti vive in Paesi a basso e medio reddito, i leader mondiali devono più che mai dare priorità alle voci e alle esperienze dei bambini che vivono in condizioni di povertà, disuguaglianza e discriminazione. Le inondazioni nel nord-est della Nigeria hanno sradicato Kyariyam*, 12 anni, e la sua famiglia dalla loro casa a settembre. Ora vivono in un campo per sfollati . “L’alluvione ha distrutto tutto nella nostra casa […] ha spazzato via i nostri vestiti, le uniformi scolastiche e i libri. È qualcosa che non dimenticherò mai. È la prima volta che vedo un’alluvione del genere. Non avrei mai immaginato che l’acqua potesse sommergere un’intera casa in pochi minuti”, ha raccontato Kyariyam*. “Metà della nostra scuola è stata completamente distrutta e non andarci mi fa stare male. Mi preoccupo costantemente di come potrò recuperare”. Una recente ricerca  della Banca Mondiale ha rilevato che in media 400 milioni di studenti hanno subito la chiusura delle scuole a causa di condizioni meteorologiche estreme dal 2022  Secondo le Nazioni Unite, il cambiamento climatico indotto dall’uomo ha anche aggravato  la siccità legata a El Nino che ha bruciato le terre e distrutto i raccolti in tutta l’Africa meridionale per la maggior parte di quest’anno, in una regione in cui il 70% della popolazione  si affida all’agricoltura per sopravvivere. Le Nazioni Unite hanno dichiarato che questa siccità è la peggiore degli ultimi 100 anni.

approfondimenti su.savethechildren

 

Il traguardo della parità di genere è lontano anche nei salari: In Europa, il salario orario medio femminile è inferiore del 12,7% rispetto a quello maschile

La disparità di genere è un problema strutturale di tutte le società ed è rappresentata in molte sfaccettature. Una di queste è la disuguaglianza tra uomini e donne nel mondo del lavoro, che si tratti dell’accesso all’impiego o delle sue condizioni. Uno degli aspetti più emblematici è il “divario retributivo di genere”, una misura spesso complessa da contestualizzare e interpretare

Il «divario retributivo di genere» è un indicatore che ha l’obiettivo di individuare le differenze medie salariali orarie tra lavoratori e lavoratrici. Sono considerati sia i lavoratori part-time che quelli full-time ma si escludono tirocini, apprendistati e chi è impiegato nell’economia informale. Inoltre non sono compresi tutti i settori lavorativi, escludendo i comparti dell’agricoltura, della difesa, oltre che degli enti sovranazionali e dell’impiego pubblico. Gli stipendi orari di lavoratori e lavoratrici vengono aggregati e viene calcolata la differenza percentuale tra uomini e donne. È un indicatore particolarmente complesso da contestualizzare, dal momento che si tratta di una fotografia complessiva della situazione che riflette non solo le possibili disparità di trattamento per una medesima posizione ma anche numerose caratteristiche del mercato del lavoro. Ci sono infatti dei settori in cui tendenzialmente ci sono più donne o uomini occupati in cui si rilevano alcune dinamiche particolari e fasce salariali differenti, oltre alla diversità di posizioni che vengono ricoperte all’interno di un determinato contesto. Tra il 2010 al 2022 assistiamo a un calo del divario retributivo di genere nei paesi dell’Ue. La percentuale raggiunge il suo massimo nel 2012 (16,4%) per poi scendere costantemente fino al 2021 e mantenere lo stesso valore nel 2022. Si tratta però di una diminuzione che non viene considerata sufficiente dalla Commissione europea. Il paese europeo tra quelli considerati che riporta sistematicamente il divario retributivo di genere più alto è la Germania mentre quello in cui è più basso è l’Italia. Ma, come viene spiegato in una nota del parlamento europeo, una percentuale minore non è per forza una rappresentazione dell’equità in senso più ampio del mercato del lavoro: «Interpretare i numeri non è così semplice come sembra. Difatti, un minore divario retributivo di genere in un paese specifico non corrisponde necessariamente a una maggiore uguaglianza di genere. In alcuni stati membri, divari retributivi più bassi tendono ad essere collegati ad una minore partecipazione delle donne al mercato del lavoro. A loro volta, divari più alti tendono a essere collegati ad un’elevata percentuale di donne che svolgono un lavoro part-time o alla loro concentrazione in un numero ristretto di professioni».

leggi il report su.openpolis

 

Nuovo rapporto ONU sulla povertà estrema e diritti umani diritti umani. Il relatore speciale ha chiesto l’introduzione di un reddito di base

Olivier De Schutter, relatore speciale ONU sulla povertà estrema ed i diritti umani, ha pubblicato il nuovo rapporto dal titolo “L’economia del burnout: povertà e salute mentale”, in conformità con la risoluzione 44/13 del Consiglio dei diritti umani. In questo nuovo rapporto viene data nuova enfasi alla necessità di introdurre forme di reddito garantito o di reddito di base (i §§ 54-57 contengono un forte appello per il reddito di base). Di seguito la sintesi del rapporto pubblicata su BIN-Italia

Il relatore speciale sulla povertà estrema e i diritti umani, Olivier De Schutter, identifica i meccanismi che espongono le persone in condizioni di povertà a un rischio maggiore di condizioni di salute mentale ed esamina come, nonostante la straordinaria capacità di recupero di molte persone in condizioni di povertà, la salute mentale possa a sua volta aggravare la povertà estrema. Invita gli Stati a passare da un approccio biomedico alla salute mentale, che la tratta come un problema dell’individuo, a un approccio che affronti anche i temi sociali causa spesso di povertà. Inoltre, per affrontare l’emergere in tutti i paesi di problemi legati alla depressione e all’ansia, si dovrebbe fare di più per combattere la povertà e la disuguaglianza e affrontare l’insicurezza economica, come maggiori cause legate proprio alle problematiche della salute mentale. Oltre a incrementare gli investimenti nell’assistenza sanitaria mentale, il relatore individua la necessità di affrontare i rischi psicosociali causati dalla precarizzzione del lavoro, rafforzare la protezione sociale, introdurre un reddito di base incondizionato, facilitare l’accesso a spazi verdi che consentano di riconnettersi alla natura, come interventi prioritari. I circoli viziosi che collegano la povertà ai problemi di salute mentale sono il prezzo che paghiamo per l’esasperazione della competizione tra le persone nelle società attuali, ossessionate dall’aumento della produzione economica. Questo circolo vizioso, tra povertà e malattia mentale, può essere spezzato, a patto di mettere il benessere della persona al centro delle politica a dispetto della ricerca infinita della crescita economica.”

Per leggere il nuovo rapporto ONU “The burnout economy: poverty and mental health” clicca qui

 

Sardegna, la speculazione energetica colpisce l’isola in modo feroce: consegnate più di 210 mila firme per la Legge di Iniziativa Popolare Pratobello24

Numerosi i comitati sardi questa estate impegnati in presidi e manifestazioni, tra cui la ribellione di metà luglio ad Oristano, dove molti cittadini hanno cercato di fermare alcuni tir in uscita dal porto contenenti giganteschi componenti delle pale eoliche, e la rivolta degli ulivi nata a Selargius (luogo in cui dovrebbe essere costruita una stazione di conversione per il collegamento sottomarino ad alta tensione, Tyrrhenian Link), dove, in risposta allo sradicamento degli alberi da parte di Terna, sono arrivati cittadini da tutta l’isola per ripiantarli

Lo Stato (Decreto Lgs n. 199/2021, Dm 21 giugno 2024) impone alla Sardegna una produzione minima di circa 6.2 GW. Mentre il consumo in Sardegna è di 1.5/2 GW. Non c’è la possibilità di accumulare e trasportare l’energia prodotta (il Tyrrhenian Link sarebbe in grado di veicolare solo 1 GW). Eppure i progetti vanno avanti, presumendo che in futuro saranno disponibili strutture per trasportare l’energia. Sono stati presentati più di 800 progetti, per 3000 pale eoliche, alte più di 200 metri. Tra i siti coinvolti: la Reggia di Barumini (uno dei simboli della civiltà nuragica), Saccargia (chiesa pisano romanica), Capo Mannu e S’Archittu (con impianti con pale di 300 m off shore), Sant’antioco Carloforte, il Golfo degli Angeli. La proposta di legge regionale prende il nome dalla rivolta di Pratobello del giugno del 1969, una mobilitazione non violenta di migliaia di donne, uomini, bambini che riuscì a impedire allo Stato di realizzare un poligono militare sui pascoli nel comune di Orgosolo. La Legge Pratobello24 si muove nell’ambito della normativa urbanistica (di competenza esclusiva della Regione Autonoma e Speciale della Sardegna) e prevede il recepimento delle disposizioni restrittive e vincolistiche già contenute in piani e programmi di emanazione regionale, nazionale e comunitario, mai tradotti fino ad ora in norme urbanistiche in grado di evitare irreversibili compromissioni del territorio. La proposta di legge prevede il divieto di realizzare impianti eolici e fotovoltaici a terra nelle aree oggetto di salvaguardia per il valore storico, archeologico, agricolo e naturale (fatte salve le comunità energetiche). Si tratterebbe di circa il 98% del territorio sardo. L’obiettivo è quello di sfruttare piuttosto le aree già impermeabilizzate (tetti, strade, parcheggi), evitando lo sfruttamento di altro suolo.

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