Riceviamo e pubblichiamo una lettera dal Villaggio Nevè Shalom – Wahat al salam ( in una collina fra Gerusalemme e Tel Aviv, esperienza di vita comune fra palestinesi e israeliani nata negli anni ’70) a un anno dallo scoppio di questa guerra.

“Cari amici,
a un anno dallo scoppio della guerra, mentre è in corso una nuova offensiva al confine settentrionale, mentre gli sfollati su entrambi i lati del confine, gli ostaggi e le vittime nel sud rimangono abbandonati al loro destino; mentre la coalizione di governo di estrema destra rinnova il suo potere; mentre il governo ignora la volontà del popolo e crea situazioni che invitano alla rappresaglia sui suoi stessi cittadini, sembrerebbe che ci sia poco altro da dire.

Tuttavia, sentiamo che è giunto il momento di ribadire e chiarire la nostra posizione.

I nostri leader sembrano essere ubriachi della serie di omicidi che ha preso di mira la leadership di Hezbollah, contestualmente uccidendo civili innocenti.
Ripetono il loro mantra: “Riporteremo i nostri cittadini indietro alle loro case poste sui confini con la forza”.
L’incursione via terra in Libano ha causato più morti, più sfollati sul lato settentrionale del confine, più bombardamenti sul lato meridionale, mentre ha fatto poco per raggiungere l’obiettivo di rendere la regione di confine sicura per i cittadini israeliani.

Il piano non è la pace, quanto piuttosto una politica di “terra bruciata” su terra che appartiene a Gaza e al Libano.
Il nostro governo “flirta” con la guerra contro l’Iran, ogni azione provoca un’altra reazione man mano che si intensifica l’escalation. Una guerra regionale, ci viene detto, è una possibilità reale.

Non accadrà perché qualcuno “ha perso il controllo della situazione”, ma perché qualcuno sta per trarre profitto dallo scoppio della violenza, perché le vite hanno poco valore, mentre il potere politico ha un grande valore.

Come abbiamo visto in passato, queste azioni possono portare una quiete temporanea, ma alimentano nuovi cicli di odio.
Solo attraverso una negoziazione che ha come obiettivo la pace possiamo veramente vivere nelle nostre case con sicurezza e fiducia.

La forza non può risolvere i nostri problemi, non può proteggere i nostri confini.
Solo insistendo sul diritto di tutti a vivere liberamente nei propri Paesi possiamo iniziare a ricostruire le nostre vite.
Solo insistendo sulla completa uguaglianza e giustizia per tutti nel nostro stesso Paese possiamo suggerirla agli altri.

Abbiamo molto lavoro da fare.

Se possiamo individuare fonti di speranza, le troviamo nella storia di Jonathan Zeigen, figlio della nostra cara amica Vivian Silver, assassinata il 7 ottobre scorso.
Il suo percorso per diventare un attivista per la pace, come sua madre, è stato riportato dal New York Times.

Altri hanno seguito la volontà di Vivian di agire e impegnarsi, creando un premio in sua memoria e giurando di continuare a “promuovere la pace”.

Abbiamo speranza quando ci guardiamo intorno e vediamo il numero di giovani, tra cui molti membri del villaggio, che lavorano in varie organizzazioni per la pace.

Abbiamo speranza grazie alle proteste quotidiane e settimanali, tra cui quelle che si svolgono in tutto il Paese agli incroci dopo che la protesta di massa a Tel Aviv è stata annullata a causa della guerra.

Anche se siamo esclusi dal processo decisionale che potrebbe influenzare le nostre stesse vite, crediamo che il nostro momento arriverà e le persone saranno ascoltate.

Abbiamo molto lavoro da fare.”