Si chiama “Occhio del Sole” (‘Ayn Shams) la città dell’Egitto dove andranno Suliman e Fatima: che sia di buon auspicio. Ma andiamo in ordine. Qualche giorno fa ricevo le foto dei loro passaporti con… il sospirato visto! Grandi rallegramenti da parte mia e dopo difficoltà comunicative varie finalmente stamattina riusciamo a parlarci per telefono. Sì, andranno in questa città, non lontana dal Cairo, dove vive anche un loro nipote. Questa è l’intenzione, ma non sarà quello l’approdo immediato: saranno prima ospitati da un fratello di Suliman che si trova invece al Cairo, dove resteranno finché non avranno trovato un appartamento in quella città piena di luce. All’Ufficio Immigrazione – mi spiega Suliman – riceveranno un contributo per l’affitto, nonché i necessari aiuti alimentari.
Mi meraviglio positivamente che in Egitto sia previsto tutto questo, e lui: “Questo non è l’Egitto, questo è l’Onu; l’Egitto non fa nulla”. Poi precisa che anche lì, come in Etiopia, i funzionari locali dell’Onu fanno soprattutto i loro interessi (“Prendono il 90 e danno il 10”). Chiedo a Suliman quanti pullman dovranno prendere per arrivare fino al nord dell’Egitto, e lui: “Non c’è pullman: c’è guerra”; bisogna prendere l’aereo. L’aereo costa 500 euro per loro due. Hanno per ora ricevuto 200 euro dal figlio Ahmed (che dopo la precipitosa fuga dalla guerra – lui come ragazzo giovane era particolarmente a rischio – ha raggiunto l’Egitto ormai più di un anno fa e si è fermato a sud in una zona di miniere d’oro, dove ha trovato lavoro nell’amministrazione) ed ora contano su un contributo da parte della figlia che vive in Germania.
Mi complimento fra me e me con questo giovane, Ahmed, il figlio più piccolo, che solo due anni fa aveva tutt’altro progetto: venire in Italia a completare i suoi studi di ingegneria (all’Università di Khartoum non c’è il biennio di specialistica di questa facoltà) e a studiare la lingua italiana; avevamo preso insieme informazioni sull’Università di Perugia e mi ero poi messa in contatto con la segreteria e -attraverso Sant’Egidio- con il rettore stesso. Chissà se Ahmed potrà tornare a realizzare questo suo sogno.
Ma come sono riusciti Suliman e Fatima ad ottenere alla fine il visto senza poter mostrare i certificati medici di lei, certificati che al Consolato egiziano di Port Sudan pretendevano e che loro non avevano più? “Perché io una sono persona conosciuta” mi risponde Suliman. “Io conosco te” gli ha detto il Console in una sala dove c’erano circa 30 persone, tutte richiedenti un visto per espatriare. “Conosco te, una persona che parla in televisione, parla alle conferenze, sempre sulla situazione del Darfur, sempre parla bene…”.
E così, grazie alla sua storia di persona impegnata a fianco dell’Onu ma soprattutto a fianco del suo popolo, e dei darfuriani in particolare, ha ottenuto – unico lui fra tutti – questo difficilissimo visto (ormai l’Egitto ha chiuso ai sudanesi dopo averne accolti, pare, 10 milioni). E così tutti gli altri restano a Port Sudan e mi chiedo quale sarà il loro destino.
Il pensiero di lasciare Port Sudan li alleggerisce. “Sì, siamo stanchi. Caldo adesso un po’ meglio, perché è 35-40 gradi, però questa città è sporca, come Napoli” dice. Io rispondo che Napoli è molto migliorata negli ultimi decenni. “Peccato” aggiunge tornando a parlare di Port Sudan “perché sarebbe una città bella, è l’unico porto del Sudan”. Mentre parla vedo dietro di lui (siamo in videochiamata) un cielo azzurrissimo che stacca in modo netto dalla sua papalina bianca: è uscito di casa, ma deve poco dopo rientrare perché la comunicazione diventa incerta. Meglio dentro che fuori.
Torniamo a parlare di ‘Ayn Shams, questa città dal nome luminosissimo; non è una città tanto piccola, è antica, c’è una grande Università. Ma quando starà lì vuole senz’altro tornare a vedere Skandariyah (quella che noi qui dall’Italia chiamiamo “Alessandria d’Egitto”).
Ed ecco che si risveglia in lui una memoria “antica”, di quell’unica volta che nel suo viaggio con i cammelli dal Sudan all’Egitto la carovana scelse un percorso che passava attraverso la Libia. Era il ’98. Impiegarono 30 giorni da Kornoi (Darfur) fino a Kufra, in Libia meridionale. “Eravamo tanti, ognuno con cammelli. Io con 30. Qualcuno anche 100-150”. Immagino questa lunghissima carovana attraverso il deserto sudanese e libico, la lentezza paziente di quel camminare ed anche la coralità: un’immagine ormai d’altri tempi ora che i cammelli non ci sono più, sono finiti tutti nelle mani dei Janjaweed. Finiti i cammelli e finiti i cammellieri. Era quello il lavoro del padre di Suliman che, da anziano, non partecipava più alla carovana ma raggiungeva il figlio in aereo al punto d’arrivo, in Egitto, dove si effettuava lo scambio commerciale che era lo scopo per cui tutto il lungo corteo si era mosso. Il commercio non era facile perché “gli egiziani imbrogliavano”.
Dal passato al presente, riferisco al mio amico di aver letto che gli Emirati Arabi aiutano le RSF facendo partire dal Ciad aerei pieni di armi mascherati da carichi di aiuti umanitari. Lui lo conferma ed aggiunge che proprio pochi giorni fa a Nyala (Darfur) sono atterrati due o tre aerei degli Emirati con questo scopo.
Gli fornisco qualche piccolo aggiornamento qui dall’Italia. Mi chiede notizie di Mani Rosse Antirazziste. Gli dico che giovedì abbiamo sfilato come sempre davanti al Viminale, ed era un giorno particolare – il 3 ottobre, anniversario del grande naufragio del 2013 al largo di Lampedusa che fece 368 morti. Ricorda che anche lui fece quel viaggio con il barcone dalla Libia e arrivò a Lampedusa il 31 maggio 2003.
Mi aveva raccontato di questo viaggio, di come durante il difficile percorso avesse preso a cuore, insomma sotto la sua protezione, una donna sudanese che viaggiava sola con il suo bambino; questa donna, Kadija si chiamava, rimase poi sempre legatissima a Suliman, il quale quando poteva andava a trovarla a Viterbo dove da un certo momento abitava. Mi ringrazia infine per i miei articoli e mi fa sapere che li sta mandando in tutto il mondo, anche in America, ovunque abbia amici e conoscenti. “Tu sei famosa” dice. “Tu e Marco Boccitto” (che sul Manifesto ha scritto vari pezzi dedicati alla tragedia del Sudan e a quella personale e familiare di Suliman e Fatima, simile a quella di decine di migliaia di altre famiglie).
Dimenticavo: Suliman ha ripreso a usare spesso la sua parola “preferita”, o meglio quella che in tutta la sua vita sembra essergli toccata “d’ufficio”: sabur, pazienza.
Link agli articoli precedenti:
https://www.pressenza.com/it/2024/07/storia-di-suliman-e-fatima-in-fuga-da-sudan-ed-etiopia/
https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-e-fatima-di-nuovo-in-sudan-ma-solo-di-passaggio/
https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-fatima-e-la-guerra-infinita-in-sudan/
https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-fatima-e-legitto-che-non-li-vuole/
https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-e-fatima-in-attesa-della-risposta-dellegitto/
https://www.pressenza.com/it/2024/09/suliman-fatima-e-i-certificati-medici-che-non-si-trovano/