“Abbiamo lasciato Sudan un anno fa” risponde Suliman alla mia domanda “Siete tristi di lasciare il Sudan?”. E’ un Sudan in guerra ma è pur sempre il loro Paese e quando te ne vai lasciandolo in quella desolazione di guerra e distruzione – penso – non lo sai davvero se la vita ti darà abbastanza tempo per ritornarci in un’ “era nuova”.
Partono, questa è la novità: il famoso visto per l’Egitto è arrivato e dopodomani alle 7 partiranno dall’aeroporto di Port Sudan diretti al Cairo. Stasera Suliman ha la voce di una persona ‘a terra’, come se stesse alle ultime gocce di energia. Però lasciano con piacere Port Sudan perché fa caldo, è molto sporca e “la gente… tutti matti”. C’è una particolarità in quella città: pur essendo in campagna nessuno fa l’agricoltore, e non ci sono attività produttive di nessun genere, tutti lavorano solo al porto a scaricare le navi che arrivano, e insomma l’unica risorsa degli abitanti ruota intorno al porto. “Quindi è una città povera” commento io. “Sì, povera, ma adesso è diventata capitale”. I paradossi generati dalla guerra. Suliman e la moglie ci hanno abitato per quasi tre mesi e sono esausti. “Ottantacinque giorni” precisa Suliman.
Ma in un altro momento della telefonata manifesta tutt’altro atteggiamento verso il Sudan in generale, il suo Paese. Lo dice con poche semplici parole, ora che se ne sta per andare in Egitto, Paese che non ama: “Sudan Paese molto bene. Ma adesso c’è guerra”. Dei 18 Stati che lo compongono, soltanto 3 non sono nelle mani dei Janjaweed – mi dice. E’ davvero disperante questa realtà per chi, come Suliman, ha cercato già 20 anni fa di contrastarli con tutte le sue risorse nonviolente e che per loro, allora mercenari di Beshir, ha dovuto lasciare il Paese per ben nove anni.
In un messaggio di una decina di giorni fa Suliman mi aveva fatto il quadro della situazione del suo Stato, il Darfur, che a sua volta si suddivide in 5 piccoli Stati: Nord Darfur con capitale El Fasher, Darfur Occidentale con capitale El Genina, Darfur Centrale con capitale Zalingei, Sud Darfur con Nyala, Est Darfur con El Daein. Nei vari mesi di guerra sono caduti tutti uno dopo l’altro nelle mani dei Janjaweed: il primo – già a metà maggio del 2023, un mese dopo l’inizio della guerra- con l’uccisione del governatore Khamis Abkar è stato il Darfur Occidentale, ma proprio negli ultimi giorni le forze governative l’hanno assediato nel tentativo di riprenderselo ed il suo destino è (era, al momento del messaggio) incerto; il secondo caduto nelle mani delle Forze di Supporto Rapido è stato il Darfur Centrale; poi – dopo una guerra durata tre mesi – è caduta Nyala e con lei il Sud Darfur. Prendere il Darfur Orientale è stato più facile perché la maggior parte degli abitanti di questa zona è composta da arabi (della tribù Rezeigat) e la maggior parte di loro fanno essi stessi parte delle Forze di Supporto Rapido. Nel nord c’era, nel momento in cui mi scriveva questo messaggio, la guerra più intensa (“è lo Stato al momento più in fiamme” diceva), con le Forze di Supporto Rapido che andavano “bruciando villaggi e uccidendo cittadini nelle aree di Al-Madbad e rubando cammelli e mucche”. Ma Al-Fasher resisteva – mi scriveva: “La guerra è ancora in corso e finora ci sono state 160 battaglie.” Resisteva Al-Fasher e ancora resiste, mi conferma oggi. Alla mia domanda su come potrà mai stare la gente che vi abita dice che gli abitanti sono quasi tutti andati via, per lo più in Ciad o in Libia.
Penso a Gaza, penso al Libano, penso al Congo su cui giorni fa Zanotelli ha scritto un articolo ferocissimo su come anche l’Italia è complice della loro miseria e mancanza di pace, penso a tutti i normali cittadini che non praticano ‘le armi’, che vorrebbero solo vivere – ma vivere nella loro casa, per povera che sia. E penso al Sudan, in cui forse sono pochissime le persone che sono riuscite a non lasciare la propria abitazione: milioni in movimento forzato, un vero dramma che si aggiunge a quello dei morti, dei feriti, delle distruzioni, della fame, delle malattie. Il Sudan che era “un Paese molto bene”.
Chiedo a Suliman se i suoi parenti stanno al momento ancora in Darfur: c’è una figlia, la maggiore, sposata con famiglia, che si trova in un villaggio a circa 40 Km da Al Fashir, cercando le strade per venir fuori dal Sudan.
Poi parliamo di lui e della moglie, della loro salute: Suliman non intende fare nessun intervento in ospedali egiziani; il suo proposito è di venirsi a curare in Italia. Venire come? Il mondo non è più libero: parti per l’Italia e ti ritrovi in una gabbia che sta dentro un’altra gabbia che a sua volta è circondata da una terza gabbia e intorno è… Albania.
Penso ai canali speciali che riesce a costruire S. Egidio. Lui parla di Emergency e mi fa il nome della persona che ha preso il posto di Gino Strada, una donna che lui ha conosciuto e insieme alla quale ha intessuto le trattative per liberare un giovane medico napoletano che i Janjaweed avevano rapito dall’ospedale di Nyala dove lavorava e tenuto prigioniero a Jabel Marra (catena montuosa del Darfur) per 90 giorni. Era il 2013. Chissà se questa donna -con cui ha mantenuto i rapporti fino all’inizio della guerra del 2023 – può contribuire ad aprire un varco per farlo venire in Italia con la moglie. Saranno questioni da affrontare presto. Ora c’è da pensare al viaggio e al fratello di Suliman che li ospiterà nella sua casa in attesa di una loro sistemazione in un appartamento che -non so perché – ora hanno deciso che sarà in un quartiere (non mi ricordo il nome) al centro del Cairo. E l’idea non fa affatto piacere a Suliman. La storia del medico Marco è finita molto tristemente: pagato un riscatto, è stato liberato ma i suoi reni erano completamente rovinati per l’acqua non pura che aveva bevuto e il cibo – non posso neanche immaginare che cibo – che aveva mangiato. Tornato in Italia, se ho ben capito ha fatto un trapianto, ma dopo un anno è morto. Aveva 30 anni.
Sento voci di bambini in sottofondo nel telefono e immagino che la conversazione si svolga con lui per strada. “Dormite fuori?” gli domando, ricordandomi che mi aveva detto che preferivano la strada al caldo della casa. “Sì, sì, adesso siamo fuori… come animali” aggiunge. E da questa espressione, non sua, capisco che la sua pazienza, la sua famosa sabur, è forse davvero finita.
Link agli articoli precedenti:
https://www.pressenza.com/it/2024/07/storia-di-suliman-e-fatima-in-fuga-da-sudan-ed-etiopia/
https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-e-fatima-di-nuovo-in-sudan-ma-solo-di-passaggio/
https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-fatima-e-la-guerra-infinita-in-sudan/
https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-fatima-e-legitto-che-non-li-vuole/
https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-e-fatima-in-attesa-della-risposta-dellegitto/
https://www.pressenza.com/it/2024/09/suliman-fatima-e-i-certificati-medici-che-non-si-trovano/
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