Un appello internazionale invitava ieri i movimenti pacifisti ad assediare le Ambasciate degli Stati Uniti d’America, laddove possibile, per protestare contro il sostegno politico ed economico (soprattutto attraverso la fornitura di armi e proiettili) al governo israeliano, che sta continuando impunito il genocidio del popolo palestinese.

Anche a Roma circa duecento persone hanno manifestato nei pressi dell’Ambasciata di Via Veneto. Appena sceso dall’autobus nella fermata a ridosso del muro di cinta dell’ambasciata, ho realizzato di essere distante qualche centinaia di metri dal presidio, a cui un cordone di mezzi e di agenti della polizia di stato, impediva di avvicinarsi ulteriormente. Io ero dunque l’unico manifestante dentro una sorta di zona rossa, Off limits, che circondava interamente l’Ambasciata.

Avendo il caso determinato tale ghiotta circostanza, non ci ho pensato due volte: ho estratto dalla tasca la bandiera arcobaleno della Pace, ma ho fatto giusto in tempo a dispiegarla per qualche secondo in mezzo alla strada. Dopo pochi istanti mi sono trovato circondato da tre agenti di polizia che, senza violenza, ma con energica determinazione, mi hanno spinto sul marciapiede, fermato e, dopo aver preso le mie generalità, mi hanno condotto fino al presidio autorizzato, invitandomi a prendere posto tra gli altri dimostranti.

Durante questi pochi concitati momenti ho fatto giusto in tempo a gridare tre o quattro volte “Free free Palestine” (memore del nostro Andrea Mariano, che con i suoi due figli ha fatto sventolare ieri la bandiera palestinese al campo base del monte Everest).

Ho poi tentato di formulare una giustificazione, dichiarando: “Non ho fatto niente di male, c’è un genocidio in corso a Gaza e sarebbe impossibile senza l’appoggio degli Usa, ho esposto soltanto una bandiera pacifista…”

“Sì, ma lei deve raggiungere i suoi colleghi manifestanti e unirsi a loro, posizionandosi dove meglio crede, ma al di là del cordone di sicurezza della Polizia” mi hanno risposto. Prima tuttavia sono stato identificato, ma non denunciato, poiché nulla in realtà c’era di penalmente rilevante da denunciare.

Alla richiesta: “Favorisca documento”, ho fornito il tesserino di riconoscimento di Reporter di Pressenza, aggiungendo compiaciuto: “Sono un reporter di una Agenzia Stampa Internazionale.” Il funzionario di polizia ha quindi esaminato con curiosa attenzione il tesserino arancione emesso a Quito, in Ecuador, dove c’è la sede legale di Pressenza e mi ha detto, senza scomporsi e con puntigliosa professionalità: “Favorisca la sua Carta d’Identità, qui non è segnata la data di nascita.”

Ho quindi raggiunto il presidio, dove era ben visibile la partecipazione di Potere al Popolo, di Cambiare Rotta, di Rifondazione, di ragazzi e ragazze della comunità palestinese, libanese e più in generale araba e di alcuni comitati di solidarietà romani, tra cui quello assai attivo di iniziative culturali del Trullo, dove io vivo.

Sono state esposte immagini di centinaia delle giovanissime vite spezzate dal terrorismo di Stato israeliano e alcuni si sono disposti con le mani rosse per denunciare la complicità degli Usa nel genocidio, con un chiaro messaggio: “Governo di Washington, hai le mani sporche del sangue delle nostre sorelle e dei nostri fratelli palestinesi”.

Interessanti sono stati tra gli altri gli interventi di Luisa Morgantini, di AssopacePalestina, Sergio Cararo della Rete dei Comunisti, Gianni Barbera del Partito della Rifondazione Comunista-Sinistra Europea e di Francesca Perri, medico emergentista in pensione, infaticabile militante di Potere al Popolo e soprattutto di numerosi comitati di lotta per la difesa della sanità pubblica e ora in particolare di “Sanitari per Gaza“. Il suo intervento ha espresso la vicinanza ai tanti medici che combattono ogni giorno in trincea per salvare vite umane, in condizioni estreme, a mani nude, sotto le bombe israeliane che distruggono ospedali e con essi strumenti salvavita, medicinali, incubatrici ed erogatori di ossigeno.

La mia serata solidale e internazionalista si è poi conclusa con un’interessantissima chiacchierata, insieme ad altri compagni e compagne, con il fotografo Tano D’Amico. Una vera e propria lezione, improvvisata ed estemporanea,  su come le “nostre” immagini, più che documentare e involontariamente veicolare il sadico orrore del potere, dovrebbero documentare la dignità del popolo palestinese, che da decenni resiste all’orrore dilagante nel mondo con fierezza e dignità.