1. Il Presidente della Repubblica in occasione del suo ultimo intervento nel quale invocava una “sintesi” affinché collaborino e “non si limitino a visioni di parte”, per il superamento dello scontro che la politica di governo ha innescato nei confronti della magistratura, ha richiamato anche l’art. 117 della Costituzione, secondo cui “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

In un momento in cui il governo si accinge a varare l’ennesimo decreto legge per aggirare le decisioni di non convalida dei trattenimenti amministrativi nei centri previsti dal Protocollo Italia-Albania, in un clima avvelenato da ricostruzioni farlocche delle decisioni della Sezione specializzata del Tribunale di Roma e da intercettazioni illegali e parziali di conversazioni private tra magistrati, occorre ribadire il contrasto degli accordi conclusi lo scorso anno dalla Meloni, con il premier albanese Edi Rama, con il diritto internazionale del mare e con il diritto dei rifugiati. Con la conseguenza che si dovrebbe stabilire la invalidità di quel Protocollo ai sensi dell’art.53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, ed il contrasto dell’intera legge, che ne costituisce ratifica nell’ordinamento interno, con la Costituzione italiana e con il Diritto dell’Unione europea che, con il Regolamento Frontex n.656 del 2014, rende vincolanti per gli stati membri il rispetto delle Convenzioni internazionali UNCLOS, SAR e SOLAS, e della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati.

 

2. I centri di detenzione in Albania, secondo l’art. 3 comma 2 della  legge di ratifica, saranno riservati unicamente a persone imbarcate su mezzi delle autorità italiane, anche a seguito di operazioni di soccorso, in zone situate all’esterno del mare territoriale della Repubblica o di altri Stati membri dell’Unione europea. Dunque a naufraghi che saranno soccorsi nelle zone di acque internazionali, oltre 12 miglia dalla costa, che potrebbero essere quelle comprese nelle zone SAR (di ricerca e salvataggio) della Libia e della Tunisia, ma anche nella zona SAR maltese, al di fuori del mare territoriale. Una previsione contenuta in una legge dello Stato, per ratificare il Protocollo Italia-Albania, che sconfessa i divieti di sbarco imposti nel 2018 e nel 2019 alle navi militari Diciotti e Gregoretti, alle quali veniva impedito per giorni lo sbarco dei naufraghi proprio perchè questi sarebbero stati soccorsi in acque internazionali. Sembra al contrario che si riconosca come doverosa l’attività di ricerca e soccorso da parte di navi militari italiane nelle acque internazionali, anche se nelle zone SAR maltese, “libica” e tunisina, purchè al di fuori delle acque territoriali (12 miglia dalla costa) degli Stati membri. Anzi, sarà probabile che soprattutto nei mesi invernali quando le partenze dalle coste nordafricane diminuiranno per le cattive condizioni del mare, le navi militari italiane vadano “a caccia” di naufraghi in acque internazionali, per riempire i centri di detenzione in Albania, ovviamente dopo una sbrigativa verifica in alto mare che questi naufraghi provengano da “paesi di origine sicuri”.

Saltano così buona parte delle argomentazioni addotte dalla difesa del senatore Salvini nel processo Open Arms a Palermo, secondo cui i casi Diciotti e Gregoretti costituirebbero un “precedente” del caso Open Arms, pur trattandosi di navi militari, e che i soccorsi operati nelle acque internazionali ricadenti nelle zone SAR libiche e tunisine andrebbero coordinati ed operati dalle autorità e dalle guardie costiere di questi paesi. Tesi già smentita da tutti i tribunali che hanno sospeso o annullato i provvedimenti di ferno amministrativoadottati nei confronti delle navi del soccorso civile che non avrebbero obbedito alle intimazioni a mano armata delle sedicenti guardie costiere libiche.

 

3. La Relazione illustrativa del disegno di legge di ratifica del Protocollo Italia-Albania ricorda che nella sentenza n. 6626/2020 la Cassazione penale (sez. III, c.d. caso Rackete) si stabilisce che l’obbligo di prestare soccorso dettato dalla convenzione internazionale SAR di Amburgo, non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. “place of safety”). Ad ulteriore conferma di tale interpretazione la Corte di Cassazione ha richiamato la risoluzione n. 1821 del 21 giugno 2011 del Consiglio d’Europa (l’intercettazione e il salvataggio in mare dei domandanti asilo, dei rifugiati e dei migranti in situazione irregolare), secondo cui “la nozione di ‘luogo sicuro’ non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali” (punto 5.2.) che, pur non essendo fonte diretta del diritto, costituisce un criterio interpretativo imprescindibile del concetto di “luogo sicuro” nel diritto internazionale. La domanda che si pone oggi è : quanto saranno rispettati i diritti fondamentali dei migranti deportati, dopo essere stati soccorsi in acque internazionali da navi militari italiane, e soltanto loro, nei centri di detenzione in Albania ? Quanto è alto il rischio che persone in fuga dalla Libia o in Tunisia, a bordo di imbarcazioni fatiscenti, intercettati in acque internazionali da navi militari italiane, dopo la propaganda nell’intero globo terraqueo della “deterrenza” affidata ai trasferimenti in Albania, tentino di sottrarsi ad un “soccorso” che di fatto diventa una intercettazione, e mettano a rischio la loro vita ?

 

4. L’individuazione del porto di Shengjn in Albania, come POS (place of safety), ovvero “porto sicuro di sbarco”, esclusivamente per le persone soccorse in acque internazionali da navi militari italiane, appare discriminatoria ed in contrasto con il diritto internazionale (dunque anche con le Direttive UE in base al Regolamento n.656/2014) anche se prevista dal Protocollo Italia.Albania e dalla legge di ratifica. Secondo l’art. 4 paragrafo 4 del Protocollo “L’ingresso dei migranti in acque territoriali e nel territorio della Repubblica di Albania avviene esclusivamente con i mezzi delle competenti autorita’ italiane. All’arrivo nel territorio albanese, le autorita’ competenti di ciascuna delle Parti procedono separatamente agli adempimenti previsti dalla rispettiva normativa nazionale e nel rispetto del presente Protocollo”.

Si deve però riconoscere, come osservano gli internazionalisti, che: “la zona di frontiera … è fondata su una finzione, ma un conto è fingere che una fascia spaziale più o meno ampia, a ridosso del confine e in continuità con esso, non sia ancora territorio interno, ai fini dell’autorizzazione all’ingresso degli stranieri, altro è inventarsi che il territorio di uno Stato terzo, neppure contiguo alle frontiere italiane e collocato a centinaia di chilometri da esse, possa considerarsi una zona di frontiera italiana“. La sentenza della Corte di Cassazione n. 22917/2019 afferma invece come il principio di non-refoulement non si esaurisce nell’obbligo negativo di non-respingimento verso un territorio in cui la vita e la libertà di una persona possono essere minacciate, ma comprende anche l’obbligo positivo di assicurare accesso al territorio al fine di formulare una domanda di asilo.

 

5. La Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 afferma come principio generale il diritto di accesso al territorio di uno Stato per la proposizione di una domanda di protezione, anche quando si verifichi l’attraversamento irregolare della frontiera, che costituisce, generalmente in assenza di documenti di viaggio, il caso più comune di arrivo di richiedenti asilo, in assenza di canali legali di evacuazione o di ingresso con visti umanitari. In base all’art.3 gli Stati contraenti sono tenuti a rispettare il principio di non discriminazione. Inoltre, in base all’articolo 33 della Convenzione –  «Principio di non respingimento» -, “Nessuno Stato contraente potrà espellere o respingere (refouler) – in nessun modo – un rifugiato verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, della sua religione, della sua nazionalità, della sua appartenenza ad una determinata categoria sociale o delle sue opinioni politiche“. Per rifugiato vanno intesi anche i richiedenti asilo al di là dei tempi di formalizzazione della loro istanza di protezione. Analogo divieto ricorre nel caso in cui si verifichi il respingimento, o comunque l’allontanamento forzato, verso un paese che non garantisca a sua volta il divieto di non respingimento. Il Protocollo Italia-Albania potrebbe consentire invece veri e propri respingimenti collettivi, vietati dall’art, 4 del Quarto Procollo allegato alla CEDU e dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, analogamente a quanto riscontratato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia.

Certo, l’Albania non è la Libia, ma in entrambi i casi persone soccorse in mare e potenziali richiedenti asilo, verrebbero sbarcati in un paese terzo all’esterno dell’Unione europea, dopo che le nostre autorità hanno esercitato nei loro confronti una prima giurisdizione esclusiva, a bordo delle navi militari italiane, che poi verrebbe trasferita, seppure per fasi limitate, ma che possono arrivare all’esecuzione di un rimpatrio con accompagnamento forzato, alle autorità di polizia in un paese terzo. Tutto questo diventerebbe ancora più grave se i trasbordi sulla nave militare italiana diretta in un porto albanese avvenissero in acque territoriali italiane, magari a ridosso dell’isola di Lampedusa. La nave militare italiana va comunque considerata come parte del territorio nazionale, e dunque non si può fingere che i naufraghi siano tenuti per giorni all’esterno dei confini dell’Unione europea, in uno spazio di non diritto.

 

6. L’UNHCR, in un documento pubblicato nella fase di ratifica del Protocollo Italia-Albania, scrive: Effettuare lo screening a bordo dell’imbarcazioni in alto mare comporterebbe gravi rischi per i migranti/richiedenti asilo e per gli operatori coinvolti, nonché limiti pratici, tra cui la necessità di personale specializzato a bordo (ad esempio con competenze mediche e/o di interpretariato) e di sistemi adeguati. Potrebbe, altresì, comportare problemi di sicurezza e ordine pubblico. Inoltre, uno screening condotto a bordo delle imbarcazioni limiterebbe l’applicazione di un meccanismo di monitoraggio trasparente di questa fase della procedura (o implicherebbe sforzi sproporzionati per garantirlo)”.

Si tratta di attività funzionali alla verifica della identità e della nazionalità, che certamente non possono neppure avviarsi a bordo di una nave militare, affiancata in acque internazionali da altri mezzi della Giardia costiera e della Guardia di finanza che trasbordano naufraghi appena soccorsi, da riprendere a bordo dopo una prima sommaria selezione, e altri invece da sbarcare a Lampedusa, soltanto quando, secondo le autorità di polizia, in una fase di accertamento preliminare, o pre-screening, se di sesso maschile, vengono ritenuti vulnerabili, minori, o vittime di tratta. In particolare non si comprende come sia possibile operare a vista, a bordo della nave militare, un accertamento dell’età minimamente attendibile, senza violare quanto ancora previsto dalla legge Zampa n.47/2017, e in particolare, nei casi dubbi, la presunzione di minore età.

La Direttiva 2008/115/CE in materia di rimpatrinon prevede forme di trattenimento amministrativo a bordo di navi, o nel territorio di paesi terzi, nè contempla procedure di pre-screening in mare.  Dovrà quindi applicarsi la Direttiva n 33 del 2013, secondo cui il trattenimento del richiedente asilo in frontiera dovrebbe essere adottato solo come extrema ratio e con un provvedimento dotato di una adeguata motivazione individuale sul punto, senza alcun riferimento alla provenienza da un paese di origine sicuro.

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