Si è svolto domenica sera al circolo Arci Porco Rosso di Palermo un interessante incontro dal titolo “La criminalizzazione dell3 palestinesi e del movimento palestinese in Italia”.

I locali del circolo si sono riempiti di un uditorio attento e partecipe nell’ascolto dei diversi interventi moderati da Anna Bucca che, nell’introdurre il tema, ha subito focalizzato l’attenzione sull’intento di condivisione e confronto di esperienze dell’iniziativa.

Negli interventi delle quattro associazioni invitate a portare il loro contributo, alle parole è stato dato il compito di raccontare senza sconti la realtà attuale e di offrirci l’occasione di rinnovare la solidarietà a sostegno del popolo palestinese, solidarietà liberata dalla prospettiva bianca occidentale.

Così fa Elisa del Movimento dei Giovani Palestinesi d’Italia che ci parla dei tre giovani uomini palestinesi arrestati qui con l’accusa di terrorismo: Anan, Ali e Mansour. All’arresto del primo, attualmente ancora detenuto a L’Aquila, si è aggiunto quello degli altri due, poi scarcerati proprio per potere mantenere una linea accusatoria dura nei confronti del primo.

Si tratta di una forma di punizione collettiva che mira ad annientare lo spirito della popolazione ma che ha invece sortito l’effetto opposto con la mobilitazione del Comitato per la sua liberazione che già aveva ottenuto la non estradizione.

Bisogna ribaltare la narrazione che vuole il palestinese nel ruolo della vittima criminalizzando la resistenza. E di resistenza armata si parla (benché interroghi, con la sua urgenza e controversa inevitabilità, le coscienze dei nonviolenti) insieme alla necessità che il supporto alla causa palestinese non sia limitato a manifestazioni di piazza, ma scardini i meccanismi di occupazione coloniale riconoscendo che partono anche da casa nostra: non può esserci liberazione se c’è dominazione coloniale, bisogna inceppare le macchine.

Qui le parole si fanno dure: sabotare, boicottare.

Anche Jamil di Voci dal silenzio, nel raccontare il caso di Luigi Spera, parla di criminalizzazione del dissenso attraverso l’accusa di terrorismo, oggi caduta dopo il ricorso in Cassazione, accusa sproporzionata ai fatti imputati al vigile del fuoco palermitano ancora oggi in regime di alta sicurezza ad Alessandria.

E criminalizzazione del dissenso è anche l’accusa di essere scafisti per tre giovani di Gaza che, come ci dice Richard dello sportello Sans-Papiers dell’Arci Porco Rosso, si dicono innocenti. Fuggiti dall’apartheid a maggio con tre barche piene di bengalesi, egiziani e palestinesi, arrivano in Italia dove invece di essere accolti come rifugiati, vengono arrestati. E contro l’accusa fanno subito lo sciopero della fame.

Così, grazie anche alla diffusione della notizia nella cronaca nazionale, ottengono i domiciliari a Siracusa. E si cercano testimoni tra i compagni di viaggio ormai in giro per l’Europa. Proprio un connazionale si rende disponibile a testimoniare in loro favore.

Ma Richard fa più che raccontare una storia. Cambia il nome con cui si appellano gli accusati, non scafisti ma capitani e capitane, uomini e donne che sfidano il sistema dei confini europei, da difendere anche se hanno commesso il reato ascrittogli, perché si rivendica che non lo sia e che invece reato è il sistema Frontex.

Alla sua voce si aggiunge quella di Mohamed che ci parla della fatica di farsi carico di comunicare con i tre arrestati, soprattutto di dover fare sapere dei tanti, troppi, non sempre quantificabili, familiari morti a Gaza.

Della criminalizzazione del dissenso in Europa e del DDL 1660 ci parlano Giovanni e Kirian di ELSC, European Legal Support Center, prima e unica organizzazione indipendente di movement lawyers che difende e rafforza il Movimento di solidarietà con la Palestina in Europa attraverso l’utilizzo di strumenti legali.

Ospiti oggi a Palermo, ci raccontano della durissima situazione in Inghilterra e Germania, soprattutto, dove la delegittimizzazione e la criminalizzazione del dissenso passa dall’equiparazione di antisemitismo e antisionismo come base dei procedimenti disciplinari. Così si viene arrestati per avere scritto Free Palestine sui social o per avere cantato “Dal fiume al mare”, considerate glorificazione e incitazione al terrorismo.

I processi vengono vinti grazie alla mobilitazione che vede alle udienze centinaia di persone davanti i tribunali, spiazzando gli stessi magistrati e contrastando l’obiettivo della criminalizzazione che è quello di isolare, intimorire e creare un clima di paura e indifferenza.

Così insieme al processo come spazio di conflitto da utilizzare per la difesa legale è fondamentale un quadro di mobilitazione generale.

E dalle esperienze in Europa il discorso si allarga alla repressione delle lotte sociali in chiave punitiva per chi sostiene i diritti anche in Italia con il DDL 1660 in discussione alla Camera: Stato di polizia, reato di terrorismo ed eversione a scopi politici, Daspo, resistenza a pubblico ufficiale, reato anche di resistenza passiva, espulsioni. Sono tutti strumenti per criminalizzare le lotte sociali, sempre più pericolosi anche per i movimenti di solidarietà palestinese.

In un secondo giro di interventi Leila del Movimento dei Giovani Palestinesi in Italia ci ricorda che la Palestina non è solo una bandiera da sventolare come simbolo della lotta anticoloniale, che la repressione censura la lotta di un popolo e ci invita a non assecondare la narrazione che lo vuole vittima.

La resistenza è l’unico futuro possibile e il Movimento per la Palestina è l’avanguardia delle lotte sociali. Non può esserci pace senza giustizia e la rete di solidarietà al popolo palestinese, necessaria per chi lo supporta, deve sempre coinvolgerlo, da protagonista della sua liberazione.
Così le parole con cui concludiamo sono: mobilitazione e comunità.

Per supportare ELSC, per il quale è necessario un lavoro a tempo pieno, si possono fare donazioni tramite il sito web WWW.ELSC.SUPPORT