Una storia palestinese di lotta nonviolenta contro l’occupazione israeliana. Che non leggerete in nessun giornalone della scorta mediatica di Netanyahu.
Zid Abu Hlel non appariva mai senza la sua bandiera palestinese e la kefieh. “Sono il simbolo della nostra identità e il nostro attaccamento a questa terra”, diceva ai ragazzi che lo ammiravano per la sua costanza e determinazione. Davanti ad ogni incursione dei soldati nella sua città, Dora, era sempre in prima linea. Non lanciava pietre, non aveva mai portato un’arma. Si fermava davanti alle truppe, oppure davanti ai carri armati, con la sua bandiera e copriva con il suo corpo la visione dei ragazzi dell’Intifada. Con il suo corpo, avvolto nel vestito tradizionale palestinese e con il copricapo kefieh in testa, proteggeva i giovani, sfidando i soldati e i loro fucili lancia-lacrimogeni. Malgrado i sui 66 anni suonati.
Quante volte è stato picchiato e malmenato da soldati, che potevano essere suoi nipoti, ma non ha mai reagito. Diceva loro in arabo “Beihemmish” (non importa). Come per dire: i vostri colpi non mi fanno desistere. La sua figura di accanito militante contro l’occupazione militare israeliana della sua terra, la Palestina, usando metodi assolutamente pacifici e nonviolenti, lo ha reso un simbolo di resistenza.
Era il Mokhtar del suo villaggio, cioè il capo con funzioni amministrative e di giudice nelle controversie e anche se era il caso di imam della moschea. Era una persona colta. Sapeva parlare ebraico, inglese e russo, oltre all’arabo, la sua lingua madre. Dopo ogni aggressione dei soldati israeliani o dei coloni contro le terre delle famiglie palestinesi, non solo della sua provincia di El-Khlil (Hebron), ma anche in altre zone e perfino nel deserto del Negev, occupato da Israele dal 1948 e abitato da palestinesi che sono minacciati di deportazione, lui diceva: “Non ci inginocchieremo di fronte alla loro arroganza. Non ci arrenderemo. La nostra volontà e determinazione sono più forti dei loro mitra”. Ha partecipato alle lotte degli abitanti del villaggio di Araqeeb, nel Negev, e quelli del villaggio di Ain Hajla, nella valle del Giordano, vicino a Ariha (Gerico) e nel quartiere di Bab Shams, ad est di Gerusalemme. Ha meritato l’appellativo di “Icona della resistenza all’occupazione”.
Sabato 5 ottobre 2024, i soldati israeliani sono entrati a casa sua, l’hanno occupata e trasformata in una caserma. Lo hanno malmenato e picchiato, riducendolo in fin di vita. Si sono accaniti perché erano lontani dalle fotocamere. La mezzaluna rossa palestinese quando è intervenuta lo ha trovato in condizioni spaventose. Faccia tumefatta e nera, diverse ossa rotte e colpi alla testa che lo hanno portato ad uno stato di prolungata incoscienza. Quando è giunto in ospedale, i medici hanno constatato la sua avvenuta morte.
Forte dolore della comunità di Dora e di tutta la Palestina. I suoi funerali sono stati una grande manifestazione di riscossa contro l’occupazione.
Che sia lieve la terra che lo accoglierà. La sua bandiera non cadrà.