I giudici di Lussemburgo hanno ribadito il controllo della giurisdizione sulle decisioni amministrative_

 

1. Una recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, in un caso riguardante un richiedente asilo moldavo giunto nella Repubblica ceca, afferma che la designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro deve estendersi a tutto il suo territorio, aggiungendo che “Il giudice nazionale che esamina la legittimità di una decisione amministrativa con cui si nega la concessione della protezione internazionale deve rilevare la violazione delle norme del diritto dell’Unione relative alla designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro“.

La decisione dei giudici di Lussemburgo giunge in un momento nel quale il governo italiano sta cercando ancora una volta, con l’ennesimo decreto legge, di aggirare le norme imposte dall’Unione europea in materia di procedure accelerate in frontiera, a fronte di una serie di pronunce dei Tribunali che non convalidano i trattenimenti dei richiedenti asilo provenienti da paesi di origine a torto ritenuti “sicuri”, e sbrigativamente inseriti nelle procedure accelerate in frontiera, o annullano le decisioni delle Commissioni territoriali che con procedure lampo respingono le richieste di protezione, sulla base dell’asserita natura “sicura” del paese di origine dei richiedenti, inserito in una “lista di paesi di origine sicuri” che il ministero del’interno si rifiuta di aggiornare. Sarebbe irragionevole e discriminatorio limitare la decisione della Corte di Giustizia UE, che si deve applicare direttamente anche all’interno degli ordinamenti nazionali, ai soli richiedenti asilo provenienti da paesi europei extra-UE che, come la Moldavia hanno aderito alla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, e non ritenerla vincolante per coloro che fanno richiesta di protezione fuggendo da paesi di origine altrettanto non sicuri, in base agli stessi criteri territoriali, ma extra-europei.

In una recente sentenza del Tribunale di Catania si faceva proprio riferimento al caso che adeso è stato deciso dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea. Il giudice catanese osservava che “solo per completezza di trattazione della fattispecie giuridica, appare opportuno aggiungere che, nel caso in cui il richiedente non avesse allegato ragioni idonee a superare la presunzione di sicurezza dell’Egitto nel suo caso individuale, il Tribunale avrebbe dovuto considerare più in generale la vicenda alla luce della pendenza di rinvii pregiudiziali sollevati davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione europea dal Tribunale di Brno (Repubblica ceca) con rinvio del 20.06.2022 (procedimento C-406/2022) e dal Tribunale di Firenze con due ordinanze del 15.05.2024 (in procedimenti sub r.g. 2458/2024 e 3303/2024). I Tribunali di Brno e di Firenze hanno, infatti, chiesto alla Corte di giustizia di chiarire se il diritto dell’Unione europea, e in particolare gli articoli 36, 37 e 46 della Direttiva 2013/32/UE (Direttiva Procedura Recast) debbano essere interpretati nel senso che essi ostano a che uno stato membro designi uno Stato come Paese di origine sicuro con esclusione di zone territoriali del Paese (quanto a Brno) e con esclusione di a categorie di persone a rischio (quanto a Firenze), nei confronti delle quali non si applica la presunzione di sicurezza e se quindi, in tal caso, il Paese nel suo complesso non possa essere considerato sicuro ai sensi della Direttiva.“.

 

2. Secondo quanto comunicato dalla Corte di Giustizia UE  il diritto dell’Unione osta a che uno Stato membro designi un paese terzo come paese di origine sicuro soltanto per una
parte del suo territorio. Inoltre, il giudice nazionale chiamato a verificare la legittimità di una decisione amministrativa in materia di protezione internazionale deve rilevare d’ufficio, nell’ambito dell’esame completo ad esso incombente, una violazione delle norme del diritto dell’Unione relative alla designazione di paesi di origine sicuri”
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In particolare, “L’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretato nel senso che: quando un giudice è investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale esaminata nell’ambito del regime speciale applicabile alle domande presentate da richiedenti provenienti da paesi terzi designati, ai sensi dell’articolo 37 di tale direttiva, come paesi di origine sicuri, tale giudice deve, nell’ambito dell’esame completo ed ex nunc imposto dall’articolo 46, comma 3, rilevare, sulla base degli elementi del fascicolo nonché di quelli portati alla sua conoscenza nel corso del procedimento dinanzi ad esso pendente, la mancata conoscenza dei le condizioni materiali di tale designazione, enunciate nell’allegato I di detta direttiva, anche se tale mancanza di conoscenza non è espressamente invocata a sostegno del ricorso”.

Il riconoscimento del diritto/dovere del giudice nazionale di applicare direttamente i criteri di valutazione imposti dalla normativa eurounionale, anche a scapito di provvedimenti o decreti di natura amministrativa adottati a livello nazionale, è di grande importanza, in un momento in cui in Italia si cerca in ogni modo di circoscrivere i poteri di controllo giurisdizionale relativamente agli atti del governo ed alle decisioni amministrative che ne derivano, indirizzati al solo scopo di dimostrare la natura strumentale delle richieste di protezione, esternalizzare le procedure di asilo, vanificare il diritto di ricorso e favorire i rimpatri forzati dei richiedenti asilo verso paesi di origine ritenuti a torto come “sicuri”.

 

3. Con riferimento al caso specifico in esame, riguardante un cittadino moldavo, la Corte ha affermato che “un paese terzo non cessa di soddisfare i criteri che gli consentono di essere
designato paese di origine sicuro per il solo fatto che si avvale del diritto di derogare agli obblighi previsti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU)”.
Ma la considerazione che può valere per un paese membro del Consiglio d’Europa, come la Moldavia, e dunque tenuto al rispetto della Convenzione EDU, che ha temporaneamente e parzialmente sospeso, non si può non estendere ai paesi di origine sicuri inseriti nella lista formata in Italia dal ministero dell’interno, che evidentemente non fanno parte del Consiglio d’Europa. Si tratta di paesi caratterizzati da gravi conflitti interni e da intere aree dei loro territori nelle quali non viene garantita la sicurezza delle persone, e spesso neppure la loro libertà e la stessa vita. Ci riferiamo alla Nigeria, al Senegal, all’Egitto, alla Libia, alla Tunisia, al Bangladesh, tra gli altri, che ancora continuano a essere inclusi nella lista di paesi di origine sicuri, aggiornata per l’ultima volta nel mese di maggio di quest’anno. Una lista che è frutto di una decisione amministrativa, che i giudici nazionali stanno rimettendo in discussione, riconoscendo uno status di protezione ai richiedenti asilo provenienti da questi paesi. Chi non proviene da un paese di origine “sicuro” ha diritto ad una trattazione della sua richiesta di protezione in procedura ordinaria, senza alcuna limitazione della libertà personale, ma con il tempestivo inserimento nel sistema di accoglienza.

Purtroppo però i presidenti delle Commissioni territoriali, e le stesse Commissioni, anche prima dell’effettiva audizione degli interessati, continuano ad applicare per le persone provenienti da questi paesi le procedure accelerate in frontiera, che comportano decisioni immediate di manifesta infondatezza, la detenzione generalizzata, un abbattimento dei diritti di difesa, una generale difficoltà o fornire elementi probatori per il riconoscimento di uno status di protezione. Su questi punti, dopo questa decisione della Corte di Giustizia UE, la Commissione nazionale per il diritto di asilo dovrebbe fornire indicazioni ai presidenti delle Commissioni territoriali per applicare la categoria di “paese di origine sicuro” in senso conforme alla normativa dell’Unione europea. Anche per evitare una esplosione dei ricorsi giurisdizionali, che saranno sempre più numerosi, soparttutto se, e quando, il governo riuscirà ad avviare “procedure accelerate in frontiera” nei centri di detenzione previsti dal Protocollo Italia.-Albania. Sarebbe anche tempo che la Corte di Cassazione, dopo la frettolosa “estinzione del giudizio” sui ricorsi del governo contro le decisioni dei giudici catanesi Apostolico e Cupri, richiesta dalla Avvocatura dello Stato, si pronunci sulle procedure accelerate in frontiera in conformità alle decisioni della Corte di Giustizia UE e delle Direttive europee in materia, che prevalgono su atti amministrativi o disposizioni legislative adottate a livello nazionale. Se ancora si vuole riconoscere il rilievo del diritto euro-unitario imposto, anche nel caso delle procedure di asilo, dagli articoli 10 e 117 della Costituzione. Ove ciò non avvenisse, e se si continuasse ad utilizzare strumentalmente le procedure accelerate in frontiera per negare nella sostanza il diritto di accesso effettivo al territorio e lo stesso diritto di asilo, si potrebbe aprire una procedura di infrazione a carico dell’Italia, analoga a quelle che sono state aperte nei confronti dell’Ungheria di Orban per il mancato rispetto delle garanzie sostanziali e procedurali previste per i richiedenti asilo dalla normativa dell’Unione europea.

pubblicato anche su A-dif.org