“Ho detto no al servizio militare in Israele il 25 febbraio scorso e poi sono stata arrestata, uscendo il 22 maggio. Ho trascorso in totale 85 giorni in carcere. Se questa scelta avrà un impatto negativo sulla mia carriera? Per legge non si dovrebbe chiedere un colloquio di lavoro perché si è obiettori, ma succede, e questo ha un impatto. Per me però è stata una scelta semplice: avevo sotto gli occhi le violenze contro i palestinesi, il genocidio in corso a Gaza”.
Sofia Orr ha 19 anni ed è obiettrice di coscienza israeliana. Dopo il carcere e l’ottenimento dell’esenzione dall’esercito, è entrata nell’associazione Mesarvot, in ebraico “Noi rifiutiamo”. Il no è al servizio militare obbligatorio, che per gli uomini dura due anni e otto mesi, contro i due anni per le donne. E sì va anche al fronte. L’agenzia Dire la intervista a margine dell’incontro a Roma ‘Obiezione alla guerra’, organizzato da Vie della non violenza con gli Operatori volontari del Servizio civile universale.
“Tra dieci giorni comincerò la facoltà di Scienze politiche all’università di Tel Aviv- racconta la 19enne- voglio lavorare per rendere il mondo un posto migliore”. Ma Orr non si fa illusioni: “Potrebbe accadere che subisca conseguenze in futuro per le mie opinioni”. Come quella sul diritto di Israele all’autodifesa, sostenuto dai principali paesi occidentali: “Tutti hanno diritto a difendersi- dice- ma Israele non si sta difendendo: attacca. È quello che usa una forza sproporzionata, realizza da anni l’occupazione e l’apartheid, e impone la propria narrativa dei fatti. Lo fa perché ne ha la forza. Quindi avrebbe anche la forza per cambiare questa situazione”.
Nel corso dell’incontro coi giovani del Servizio civile, Orr spiega: “Ho scelto di alzare la voce perché, a differenza dei palestinesi, ho il privilegio di poter sognare la pace e la fine del genocidio contro i palestinesi”. Orr descrive la società israeliana come “fortemente militarizzata, razzista, violenta, legata a doppio filo alla propria narrativa e disumanizzante”. Un sistema, continua, “concepito per opprimere i palestinesi ma che ha finito per reprimere anche noi israeliani”. Per questo, la studentessa si dice convinta che “il cambiamento non arriverà dalla società israeliana”. Ecco che allora serve il supporto delle “società civili internazionali: dovete fare pressioni sul governo di Israele” dice ai giovani che la ascoltano. “I vostri governi devono smettere di dargli le armi”. Ma alzare la voce in Israele non è semplice: “Io ho deciso di dire chiaramente che rifiutavo il servizio militare per ragioni politiche e di coscienza. Ho trascorso 85 giorni in detenzione, ma non ci sono limiti a quanto possono tenerti in prigione”. Circa una decina di giovani finisce dietro le sbarre ogni anno, ma Mesarvot assiste anche “l’obiezione grigia”.
Spiega ancora Orr: “Non tutti sono disposti a mettere a rischio i legami familiari, sociali e di lavoro o a sopportare il carcere, così molti scelgono il servizio civile. Si ottiene per ragioni fisiche, di salute mentale o religiose. Alla fine il 50% dei giovani sceglie questa strada ogni anno, e si svolgono attività nelle scuole, nelle aziende agricole o nei centri per donne o minori vittime di famiglie violente”.
A spiegare com’è la prigione militare è Daniel Mizrahi, altro obiettore della piattaforma Mesarvot: “Voglio chiarire- premette il ragazzo- che il carcere non è piacevole ma è decisamente migliore rispetto alle condizioni in cui sono tenuti i detenuti palestinesi”. Il vero rischio di subire “torture” si corre, spiega, “solo se si finisce in cella di isolamento: è piccolissima, quindi in estate col caldo non si respira. La luce è accesa 24 ore su 24, quindi non puoi dormire, e infine bisogna stare sempre seduti con la schiena dritta. Se ti appoggi o sdrai, il secondino ti richiama e rischi punizioni”. Mizrahi è stato minacciato di finire in cella di isolamento “un giorno che, ai miei compagni di cella, ho spiegato perché avessi scelto di rifiutare il servizio militare”.
A confermare che in Israele si corrono molti rischi ad esprimere idee diverse dalla linea adottata dal governo è Aisha Amer, attivista di Mesarvot di origini palestinesi: “La mia famiglia- premette la studentessa- è stata cacciata nel 1948, quando Israele ha occupato la Palestina e ci ha preso la terra. La mia famiglia è rimasta in Israele ma siamo cittadini di serie B perché non abbiamo la cittadinanza”. A scuola, racconta, “siamo costretti a studiare l’ebraico e a lezione di storia è vietato insegnare o parlare della storia palestinese o delle nostre sofferenze. Gli insegnanti che lo fanno vengono arrestati. Di recente- continua Amer- una docente universitaria è stata arrestata per aver parlato del genocidio in corso a Gaza. È anche stata licenziata dall’ateneo”. Ma aver incontrato i giovani di Mesarvot come Sofia e Daniel, “che dicono no alle armi e mi trattano come una loro pari, mi ha ridato speranza e convinto a diventare una volontaria”, conclude.