Il Decreto legge approvato dal Consiglio dei ministri per sterilizzare le decisioni di mancata convalida del trattenimento amministrativo nelle “procedure accelerate in frontiera” da parte del Tribunale di Roma, e prima di altri Tribunali italiani, sulla base di una cospicua giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, non modifica i poteri/doveri di accertamento dei giudici sulla controversa categoria dei paesi di origine “sicuri”, e non fornisce basi legali più solide al Protocollo Italia-Albania, che appare in contrasto con la vigente normativa dell’Unione europea, ed anche con quella che entrerà in vigore entro il 2026, in attuazione del Patto europeo sulla migrazione e l’asilo.

Il ministro dell’interno Piantedosi, sulla nuova previsione per legge della lista di paesi di origine sicuri, ha invece ribadito: “Abbiamo ricompreso i paesi con il tasso del 20 per cento di riconoscimento di protezione internazionale. Peraltro questa previsione anticipa un regolamento europeo che entrerà in vigore nel 2026 fondato proprio su questo principio”.

Il richiamo parziale operato dal ministro Nordio al caso concreto oggetto della decisione della Corte di Giustizia dell’Unione europea sovrappone poi il giudizio sul riconoscimento della protezione internazionale alla valutazione della legittimità del trattenimento amministrativo nelle procedure in frontiera e ne omette il passaggio essenziale.

Secondo quanto deciso dalla Corte di Giustizia UE, “ il giudice nazionale chiamato a verificare la legittimità di una decisione amministrativa in materia di protezione internazionale deve rilevare d’ufficio, nell’ambito dell’esame complet o ad esso incombente, una violazione delle norme del diritto dell’Unione relative alla designazione di paesi di origine sicuri”.

In particolare, […] il giudice deve[…], rilevare,” sulla base degli elementi del fascicolo nonché di quelli portati alla sua conoscenza nel corso del procedimento dinanzi ad esso pendente, la mancata conoscenza delle condizioni materiali di tale designazione […], anche se tale mancanza di conoscenza non è espressamente invocata a sostegno del ricorso”.

Per la Corte di Giustizia UE, l’utilizzo della categoria del “paese di origine sicuro” non può derivare automaticamente dalla mera inclusione di quel paese nella “lista di paesi di origine sicuri” formata dal ministero degli esteri, ma deve essere oggetto di una valutazione attualizzata del giudice, da riferire (ex nunc) non al momento di adozione della lista ma al momento della decisione.

É questa la valutazione rilevante per stabilire la legittimità del trattenimento per i richiedenti asilo, provenienti da paesi di origine “sicuri”, in strutture di detenzione amministrativa nel corso delle procedure accelerate in frontiera.

Il governo è caduto in una grave contraddizione. Per un verso si eliminano dalla lista, con un decreto legge, paesi come il Camerun, la Nigeria e la Colombia, che non rientrano nei criteri fissati dalla CGUE per qualificare i paesi di origine “sicuri”, e poi si nega che le sentenze di questa corte abbiano diretta valenza normativa “erga omnes”, anche nell’ordinamento nazionale, al pari dei Regolamenti.

Colpisce immediatamente come il rispetto dei “criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea” abbia comportato l’esclusione dalla lista di alcuni paesi di origine “sicuri” proprio a seguito delle decisioni dei giudici italiani che si intendono sterilizzare per dare attuazione al Protocollo Italia-Albania.

Evidentemente la lista di paesi di origine sicuri approvata a maggio di quest’anno con decreto interministeriale non è apparsa difendibile di fronte alle decisioni dei giudici, ed al rischio di un ennesimo intervento della Corte di Giustizia UE.

Non si comprende davvero, a questo punto, per quali ragioni, se non quelle politico-propagandistiche, rimangano all’interno della lista paesi come l’Egitto e la Tunisia che, proprio in base ai criteri di qualificazione enunciati dalla Corte di Giustizia UE e confermati nel nuovo Regolamento Ue sulle procedure, non dovrebbero essere qualificati come “paesi di origine sicuri”.

L’intervista del ministro Piantedosi resa a Bruno Vespa riassume tutte le contraddizioni in cui è caduto il governo nel tentativo di attaccare le decisioni dei giudici che non hanno convalidato i trattenimenti amministrativi disposti dai questori nelle procedure accelerate in frontiera, prima in Italia, ed adesso in Albania.

Appare destituito di fondamento anche il richiamo al “successo” del governo italiano che con la esternalizzazione delle procedure di asilo in Albania avrebbe anticipato quanto previsto dai futuri Regolamenti europei in materia di screening, e di procedure per il riconoscimento della protezione internazionale e di rimpatrio.

In base al futuro Regolamento la procedura di frontiera può svolgersi “in un luogo sito alla frontiera esterna o in prossimità della stessa ovvero in una zona di transito” ma, in assenza di disponibilità in tali luoghi, “lo Stato membro può ricorrere ad altre sedi sul proprio territorio”. Sedi che evidentemente non si possono trovare in un paese terzo, come l’Albania, anche se soggette alla giurisdizione italiana, per la impossibilità di applicare in questi casi, all’esterno del territorio dell’Unione europea, la Direttiva 2008/115/CE sui rimpatri.

Nessuna legittimazione dunque per il trattenimento amministrativo generalizzato in Albania di richiedenti asilo provenienti da paesi di origine sicuri e soccorsi da navi militari italiane in acque internazionali. In base all’art.2 del nuovo Regolamento procedure,  […] che stabilisce una prassi comune di protezione internazionale nell’Unione e abroga la precedente direttiva […], il Regolamento si applicherà a tutte le domande di protezione internazionale presentate nel territorio degli Stati membri, anche alle frontiere esterne, nel mare territoriale o in transito in zone degli Stati membri e alla revoca della protezione internazionale.

Non si prevede in alcun modo l’espletamento di una procedura accelerata in frontiera in un paese terzo esterno all’Unione europea, come si vorrebbe far credere da parte dell’Italia nel caso del Protocollo Italia-Albania.

Le trattative attualmente in corso a livello europeo per la creazione di Hub regionali per processare le richieste di asilo al di fuori dell’Unione europea sono ancora in alto mare, anche per i differenti interessi degli Stati membri guidati da governi sovranisti, e per i prossimi anni non potranno fornire alcuna base legale al Protocollo Italia-Albania.

Oltre al Comunicato stampa di Palazzo Chigi, che sembrerebbe anticipare una ennesima ritirata del governo di fronte alla vigenza attuale del diritto dell’Unione europea, inclusa la contestata Direttiva accoglienza n.33 del 2013, e della sua corretta applicazione da parte dei Tribunali, rimane lo sconforto di un governo reticente, se non approssimativo ed incompetente, che minaccia ancora di intervenire sui procedimenti giurisdizionali, magari inventandosi un grado di appello contro le decisioni di mancata convalida dei trattenimenti o accrescendo, non si vede bene come, i poteri “di respingimento” già assai rilevanti delle Commissioni territoriali che operano presso le Prefetture.

Le affermazioni di Piantedosi, Mantovano e Nordio in conferenza stampa sono state davvero imbarazzanti.  Sono arrivati a sostenere che “il giudice non può disapplicare una norma”, che “la norma primaria italiana è superiore a quella europea” e che “la sentenza europea era in francese, i giudici italiani non l’avranno capita”.

Ma sono loro che non hanno capito, o forse non hanno nessuna voglia di capire. Fingono di ignorare che il potere di disapplicazione del giudice va ben oltre la vecchia nozione di disapplicazione dell’atto amministrativo, risalente al 1865, e non dipende dal rango della fonte normativa interna, come norma secondaria (decreto ministeriale) o primaria (legge), ma dal primato del diritto cogente dell’Unione, come i Regolamenti e le sentenze della CGUE, imposto dagli articoli 10 e 117 della Costituzione.