A quasi cinque anni dall’inizio della pandemia da coronavirus, certe immagini e sensazioni sembrano oggi particolarmente lontane del tempo. Piazza San Pietro vuota per la Pasqua del 2020, con un pontefice che affermava “credevamo di poter rimanere sani in un mondo malato”, mentre da molte voci si sentiva il refrain “non possiamo tornare alla normalità perché la normalità era il problema”.
Solo in pochi osavano, in quei giorni come sospesi nel tempo, tra canti dai balconi e persone che imparavano a fare il pane in casa, invocare un ritorno di quella normalità fatta di continua accelerazione, spostamenti sempre più massicci di beni, persone , materie prime, di iper produzione e iper consumo. Qualche editoriale su Il Foglio sosteneva, controcorrente, questo obiettivo, mentre video e frasi motivazionali di tutt’altro tenore circolavano di cellulare in cellulare, di post in post, tra persone chiuse nelle proprie case, mentre nelle strade e nelle città, la natura si “riprendeva il suo spazio” in modo ovunque sorprendente.
Eppure quella normalità, messa in discussione in quel breve momento di drammatica lucidità della società nel suo complesso, si è riproposta rapidamente in modo sempre più imponente. Cosa ne è stato di quelle consapevolezze, perché si sono dissolte in modo così clamoroso? Durante il tempo del lockdown, i segnali di questa consapevolezza sono stati di vario tipo, dalla ricerca di un miglior equilibrio con la natura, da una maggior attenzione all’ambito delle relazioni, al bisogno di rallentare i ritmi di vita. In quei giorni le vendite di cibo biologico conobbero un vero e proprio boom ad esempio, nonostante i prodotti bio siano mediamente più costosi degli altri e la situazione di incertezza lavorativa e quindi economica fosse estesa. Nei primi giorni dopo il lockdown l’uso della bicicletta durante il tempo libero, ebbe dei picchi veramente rilevanti, non più riscontrati successivamente. Eppure tutto oggi sembra svanito persino nella memoria collettiva.
Io ritengo che l’uscita dal lockdown abbia suscitato una controffensiva della società dei consumi, della società iper vorace e iper accelerata, e che questa controffensiva sia stata portata avanti da due paure che si sono saldate insieme.
La prima paura, quella del cittadino medio, è stata la paura delle restrizioni. Per una società da sempre abituata ed educata attraverso la potente macchina della pubblicità, al concetto che desiderio coincide con bisogno, e che bisogno coincide con diritto, l’idea che qualcuno, a causa di una crisi reale, potesse tornare a mettere dei limiti, potesse nuovamente impedire qualcosa, suscitava a livello consapevole o meno, un vero e proprio terrore collettivo.
Ma questa paura forse era poca cosa rispetto a ciò che le classi dominanti, imprenditoriali e mediatiche, avevano vissuto in quel breve periodo: il ritorno dello stato. Il primato assoluto del decisore politico rispetto all’economia. Il fatto che anche dopo decenni di deregulation, di teoria e di prassi che avevano portato gli stati ad essere dei meri regolatori quando non spettatori delle grandi scelte che venivano fatte da corporation, gruppi finanziari eccetera, potesse una istituzione avere la capacità di fermare quasi tutto, di decidere cosa era compatibile con il momento di crisi e cosa no, significava agli occhi della grande impresa e della stampa al seguito una cosa ben precisa: socialismo. E l’incombere di altre crisi, come quella ecologica e climatica, diventava a quel punto particolarmente preoccupante, non tanto in sé, per l’innalzamento dei mari o gli eventi estremi o le ondate di calore. Diventava preoccupante soprattutto perché con lo stesso criterio per cui i governi del mondo avevano chiuso i cittadini in casa e deciso quali attività economiche erano compatibili con la pandemia e quali no, gli stati avrebbero potuto bloccare una infinità di cose per ridurre gli output insostenibili dal punto di vista ambientale e climatico. Il fatto poi che governi come quello italiano, spagnolo, portoghese, avessero per un momento invertito il percorso tracciato da anni di austerità e tagli, ottenendo una forma di debito comune europeo, ottenendo la possibilità di spendere in deficit, di rivedere i dogmi e gli assiomi del trentennio liberista, incrementava questo terrore. Lo spettro di un eco-socialismo si aggirava per il mondo.
Le due paure, del singolo e dei potenti, si saldavano. Un’istituzione pubblica mi può vietare di fare un weekend a Londra con un volo low cost, in nome di una crisi? o di prendere un aperitivo all’aperto a gennaio davanti a bruciatori di metano in piazza? o comunque di consumare nel modo e nella quantità con cui ho sempre fatto? A questa paura “popolare” si saldava l’altra: “uno stato può decidere quali aeroporti, quali rotte aeree io imprenditore posso tenere in piedi? Mi può dire quando tenere aperto un locale e quando no? Con quali modalità consumare e vendere? Potrebbe addirittura intervenire come attore nel mercato e divenire mio competitor, là dove reputasse che questo è strategico per gestire la crisi in corso?
Ecco che da questo terrore sono nate due risposte apparentemente antitetiche, ma che in realtà hanno lo stesso padre. Quella complottista e quella conformista. il negazionismo della crisi e l’abbandono fiducioso nella risposta alla crisi puramente tecnica, una sorta di iper-positivismo. I negazionismi consistono nel rifugiarsi nell’idea consolante che le crisi non esistono, e che al massimo sono state generate dall’ambizione e dalla corruzione morale di qualcuno che vuole distruggere tutto per i propri biechi scopi. La soluzione è semplice in quel caso. Tolto l’allarmismo (o tolti di mezzo coloro che creano la situazione di crisi) possiamo tornare a quella normalità a cui ci siamo abituati. Il conformismo positivista, si può tradurre così: “la nuova tecnologia X ci risolverà tutti i nostri problemi, ci farà uscire dalla crisi e potremmo tornare a vivere senza limiti, come prima, più di prima”. Per la pandemia questa X sono stati i vaccini. Per la crisi ecologica varie cose, dall’auto elettrica ai pannelli solari a molto altro, ma lo schema è lo stesso. Se talvolta in ambito di crisi ecologica il tema della “riduzione dei consumi” può far capolino nel discorso conformista positivista, questo è visto mediamente come una questione di comportamenti individuali volti a limitare gli sprechi, o ancora una volta a innovazioni tecnologiche, volte all’efficientamento, non certo come una messa in discussione di una società bulimica di materia, di energia, di suolo, informazioni e generatrice di crisi a causa di questa bulimia.
Entrambe le posizioni, minoritaria quella negazionista-complottista, maggioritaria quella conformista e fiduciosa nel paradigma tecnocratico, sono fondate su una rimozione e scacciano così dalla mente lo spettro dell’eco-socialismo, lo spettro della crisi, di limitazioni drastiche agli interessi dominanti e ai desideri popolari pompati dalla pubblicità e dal marketing.
Tra le tante domande che suscita questa fase storica è quanto a lungo potrà durare questa rimozione, quali contraddizioni, quali eventi saranno capaci di rompere la inconsapevole alleanza tra popolo e classi dominanti, quale nuova crisi potrà riaccendere quelle consapevolezze collettive che la pandemia aveva stimolato.
Al momento neanche i venti di guerra, neanche le crisi geopolitiche che stanno facendo scivolare il mondo su un piano inclinato che porta dritto alla terza guerra mondiale, sembrano aver scalfito lo spirito da “belle epoque” che permea il mondo post-covid, in particolare in Occidente.
Eppure gli scricchiolii di tale contesto sono sempre più numerosi.