Lunedì 1 ottobre si è tenuto a Palermo, presso la Biblioteca dell’Istituto Gramsci, il primo seminario di un ciclo, voluto dallo stesso Istituto e da alcune docenti della locale Università, dedicato agli studi di genere, alle diverse sfaccettature della maternità ed alle più recenti curvature del femminismo.
Questo incontro iniziale ha visto conversare la grecista Valeria Andò, le storiche Giovanna Fiume, Ida Fazio e Piera Fallucca con Giulia Sissa, femminista, grecista, docente in Francia e attualmente negli Stati Uniti, dove insegna Scienze Politiche e Letteratura Classica e Comparata. Tra i suoi libri: Madre materia, La verginità in Grecia, La vita quotidiana dei Greci, Il piacere e il male – filosofia della droga, Eros tiranno, L’errore di Aristotele, il potere delle donne, La gelosia.
Il libro di cui si è parlato qui, il suo ultimo, s’intitola “I generi e la storia” ed è edito da Il Mulino, Bologna. Rispondendo alle domande proposte dalle interlocutrici, Sissa ha sviluppato un’interessantissima argomentazione.
Dagli anni ’50-‘60 negli Stati Uniti i medici John Money e Robert Stoller si sono interrogati sulla povertà semantica della parola “sesso”, poiché temporalità e complessità dei comportamenti sessuali non si potevano, a loro avviso, ridurre a una semplificazione binaria, fondata sull’anatomia degli organi genitali esterni di un bambino appena venuto alla luce. Oltre all’anatomia esiste, infatti, la realtà endocrina ed esiste il tempo: già durante la gravidanza possono accadere molte cesure. E poi il neonato è inchiodato alla binarietà e a un’educazione da essa condizionata, entro una classe economica, un codice etico, una religione, una tradizione.
Money e Stoller hanno cercato quindi un nuovo termine che includesse l’esperienza corporea ma anche il condizionamento ambientale, esprimendo uno spettro di sfumature, fuori dalla binarietà assoluta: “gender”.
Le scienze sociali, a partire da Ann Oakley negli anni ’70, la storia, l’antropologia hanno quindi mutuato questo nuovo paradigma producendo un sapere complesso.
Ma “gender” e “studi di genere” (non “ideologia di genere”, come la destra nostrana la definisce proibendola a scuola) sono molto di più: parlare di genere è fare politica. “Genere”, in quanto parametro intersezionale, dice trasformazione storica ed esercizio di potere: negli studi di genere si individuano stereotipi discriminanti, forme di dominio, ma anche l’intreccio fra esperienza corporea e sociabilità, articolazione di uguaglianza e differenze, spazio dei diritti, primo fra tutti quello alla felicità.
Perciò il concetto di genere è politico ed emancipatorio.
Permette di fondare un’ontologia centrata sul divenire. Abbiamo tutto da guadagnare e niente da perdere in questa prospettiva, dice convintamente Sissa. Le donne, nuovi soggetti sociali arrivati ultimi nella storia, rifiutano così il paradigma della legge naturale, che attraverso Aristotele, Tommaso, il cattolicesimo e il giusnaturalismo moderno ha preteso di giustificare tramite la biologia l’inferiorità della donna.
Il cristianesimo giusnaturalista e integralista, anche nei recenti decreti della Corte Suprema USA, ribadisce la pretesa attualità del tomismo, sostenendo la complementarità fra i sessi che in realtà significa asimmetria e inferiorità (questa sì è ideologia!).
Ma la Costituzione italiana prima e i movimenti del ’68 poi, con le nuove leggi che hanno prodotto (divorzio, aborto, nuovo diritto di famiglia), la tecnologia, che con la pillola contraccettiva ha consentito un’autodeterminazione fondamentale, sono state svolte epocali.
Il femminismo degli anni Settanta – con i consultori autogestiti, la scoperta reciproca del corpo, l’autoaiuto, l’autoironia, l’autocoscienza – rivisitato, può farci ritrovare oggi quel senso di energia e assertività.
La sfida è globale, non solo italiana. Si articola come opposizione tramite il nostro voto, opposizione negli studi di genere che con pazienza costruiscono pensiero critico, consapevolezza che il progetto femminista, al pari del progetto dei lumi secondo Habermas, è sempre in fieri: gli ideali di libertà eguaglianza sororità e felicità sono ancora da realizzare.
Non è l’utopia tecnologica del progresso illimitato e devastante, ma l’eutopia della felicità fondata su riconoscimento, rispetto, riguardo.
C’è poi un’altra urgenza, politica oltre che teorica, ad assolvere la quale il concetto intersezionale di gender si presta bene: è il dialogo tra i vari femminismi.
Il femminismo della differenza ha introdotto l’etica della cura (Adriana Cavarero) e una nuova responsabilità politica, con uno stile femminile di governo: protezione anziché comando (Maria Rosa Buttarelli); anch’esso esprime dunque progettualità e dialogo.
Il transfemminismo (con l’autoironia di Giulia Serrano) si radica nel desiderio di trasformazione, ma l’esperienza trans non è univoca: la transizione da uomo a donna, per esempio, è complessa e provoca reazioni sociali di transfobia molto simili alla misoginia più tradizionale.
Perciò donne cisgender e transgender e generazioni diverse di femministe possono incontrarsi e darsi comuni obiettivi da perseguire. Del resto anche fra donne cisgender c’è un’immensa diversità di esperienza, legata a classe lingua religione scelte politiche etc.
C’è una generosità nel pensiero trans: fai attenzione a ciò che condividi con le altre donne, state insieme, al di là della geografia corporea. E questa generosità può esserci fra tutte noi, in quanto riconoscimento delle differenze, senso di comunità e valorizzazione reciproca.
La lotta contro le discriminazioni e per i diritti è una lotta unica che ha come obiettivo politico la felicità.
Il gender, perciò, dal punto di vista filosofico, consiste in un approccio fenomenologico al soggetto, che descrive il vissuto, le biografie corporee, sofferte o gioiose.
Uno dei concetti più preziosi del nuovo femminismo è stato la scoperta della soggettività: il partire da sé, il personale che è immediatamente politico. E l’autocoscienza è di fatto una pratica fenomenologica.
Anche da questo punto di vista l’esperienza transgender è paradigmatica: muove dall’ “autorità della prima persona”, trova il coraggio della narrazione di sé, vietata dalla politica tradizionale ma anche dalla dimensione collettivistica degli anni ’70.
Occorre che ci mettiamo in ascolto e che posizioniamo nella giusta direzione lo sguardo: la donna trans può essere un esempio anche estetico, per così dire. Ella gode delle insegne del femminile tradizionale, il trucco, i tacchi, le acconciature e le vesti estrose, tutte cose che noi – ragazze di cinquant’anni fa – avevamo rifiutato per non essere simboli dell’oggettificazione, oggetti di consumo del maschio capitalista, chissà magari rinunciando a un piacere proprio nostro…
L’esperienza trans ci riconcilia con la ricerca della nostra bellezza, con un modo avvenente di essere nel mondo, mentre ci insegna il coraggio e la franchezza.
Un’ultima considerazione a margine, che però meriterebbe più tempo per essere discussa. Si potrebbe applicare ai nuovi femminismi lo storico dibattito che ha attraversato le scienze circa la natura e la struttura della luce, prima, e della materia, poi: onda o corpuscolo?
La visione “liquida” della società post-moderna proposta da S. Bauman, il flusso, con il quale da Eraclito in poi è identificato il divenire, appare a Sissa un insieme caotico che annulla tutte le differenze e le rende irriconoscibili, depotenziando gli individui. Pertanto per descrivere la trasformazione preferisce utilizzare l’immagine del corpuscolo, che consente di focalizzare i dettagli, i pezzetti, di esaminare i passaggi, descrivere quei piccoli passi attraverso i quali accade poco a poco la transizione sessuale, di cui spesso non si conosce con chiarezza l’esito finale: un’indagine teorica, ma prima ancora un percorso di vita che si può detransizionare, modificare in parte, dal quale ci si chiede se tornare indietro o deviare.
Un percorso aperto insomma, come la ricerca teorica, come la pratica politica, che non possono che interagire.