43.000 morti a Gaza, alcune migliaia tra morti e profughi in seguito ai raid israeliani in Libano, assalti all’Unifil, l’Unwra, agenzia delle Nazioni Unite, accusata di appoggio al terrorismo e messa in condizione di non poter più intervenire in soccorso alle popolazioni civili martoriate dai bombardamenti e assediate nella prigione a cielo aperto di Gaza…

Che cosa deve ancora succedere perchè chi ha il potere di farlo si muova a fermare questo massacro e a mettere fine all’impunità di questo governo israeliano che ormai apertamente persegue l’obiettivo della Grande Israele, in violazione di tutte le ingiunzioni e le delibere dell’ONU e delle sue agenzie?

Siamo sull’orlo di un baratro, ma la logica della guerra e dei miopi interessi di potenza continuano a dettare legge. Così quasi tutti i governi occidentali, in primis gli Stati Uniti, si limitano a blande condanne verbali, continuando ad armare Israele e a consentirgli di proseguire nella sua politica di espansione dell’occupazione, di espulsione del popolo palestinese dai suoi territori, di distruzione di ogni prospettiva di soluzione politica al problema dei rapporti tra le popolazioni che vivono in quella terra.

In nome della “difesa” e della sicurezza di Israele si mette a rischio la difesa concreta e la sicurezza non solo delle popolazioni civili di tutta l’area, ma del mondo intero.

Non è più tollerabile e da molte parti si sono levate voci e movimenti di protesta contro questa situazione. Dalle Università statunitensi in prima fila, alle nostre scuole e università, dalle associazioni palestinesi, alle associazioni della diaspora ebraica, dall’interno stesso di Israele ci sono forti proteste che restano però inascoltate, quando non tacciate di antisemitismo e di sostegno al terrorismo.

Come uscire dall’impotenza e affrontare con efficacia questa situazione?

Certo, a questo fine, anche una valutazione politica, oltre che etica, del 7 ottobre appare doverosa. L’attacco di Hamas, scatenato in un contesto di decenni di occupazione, i cui preparativi è difficile immaginare non fossero noti all’intelligence israeliana, ha fornito al governo di Netanyahu il pretesto per una reazione spropositata e che sta consentendo di portare a compimento il programma di pulizia etnica in tutti i territori occupati.

Questo naturalmente non significa attribuire la responsabilità dei massacri del governo israeliano ad Hamas; la responsabilità dei massacri è di chi li compie: Hamas ha quella dei circa 1200 morti del 7 ottobre, Netanyahu quella dei circa 43.000 morti palestinesi dal 7 ottobre 2023 a oggi.

Significa piuttosto che finché non si esce da un’ottica di polarizzazione e di scontro violento si alimenta un’escalation che non si sa quando e dove potrà finire. E se è vero che oggi il sostegno alla causa palestinese è cresciuto in tutto il mondo, ciò è avvenuto a un prezzo altissimo e con esiti ancora purtroppo del tutto aperti a un ulteriore peggioramento della situazione…

In un lucido articolo uscito su Waging Nonviolence il 7 ottobre scorso , tradotto e pubblicato anche sul sito del Centro Studi Sereno Regis Sami Awad, palestinese di Betlemme, con parenti bloccati a Gaza, co-direttore di Nonviolence International e fondatore di Holy Land Trust, scrive

Come attivista nonviolento, ho capito da tempo che in un sistema di dominio assoluto, la risposta a qualsiasi resistenza – soprattutto alla nonviolenza – è la repressione. Questo è ciò che abbiamo sperimentato nei molti anni del nostro impegno in azioni nonviolente. Siamo stati tutti testimoni della Marcia del Ritorno del 2018 a Gaza, dove centinaia di palestinesi sono stati uccisi e migliaia feriti in un’azione nonviolenta che chiedeva il diritto dei rifugiati a tornare alle loro case, come stabilito dalle Nazioni Unite. La nonviolenza smaschera i sistemi di oppressione ed è quindi pericolosa per tali sistemi.  ….

….. la situazione per la resistenza nonviolenta in Cisgiordania in particolare è diventata più pericolosa e mortale che mai. Spinto dalla vendetta, dalla rappresaglia, dalla disumanizzazione e dal dominio, l’esercito israeliano ha raddoppiato la repressione della resistenza nonviolenta. Molti attivisti nonviolenti palestinesi in Cisgiordania sono stati arrestati all’inizio di ottobre e novembre 2023, tra cui Ahed Tamimi e suo padre Basem, leader del movimento per la nonviolenza in Palestina, che è stato rilasciato nel giugno 2024 dopo essere stato torturato.

Nell’ultimo anno mi sono sentito spesso senza speranza, chiedendomi ripetutamente: “Cosa possiamo fare?”. …

Sentirsi senza speranza è qualcosa, ma arrendersi non è un’opzione. Il nostro impegno per la nonviolenza deve essere più forte che mai. Non costruiremo un futuro migliore uccidendoci o dominandoci a vicenda e la resistenza nonviolenta è il modo per andare avanti. 

Anche se le proteste e le dimostrazioni sono impossibili in questo momento, le tattiche della nonviolenza sono numerose. Le strategie di base della non cooperazione e della non conformità devono diventare una parte centrale della resistenza e della resilienza, non solo per i palestinesi ma anche per gli israeliani e la comunità internazionale.

Credo che queste parole, scritte da una persona che vive nel cuore dell’oppressione israeliana, siano indicazioni preziose anche per noi e ci coinvolgano.

Perché noi, che siamo una terza parte esterna, abbiamo la responsabilità di far conoscere e sostenere queste azioni, poiché la concreta solidarietà internazionale è una delle condizioni essenziali per renderle capaci di trasformare la situazione, affinchè la lotta nonviolenta diventi un movimento chiaro e proattivo, con una visione e una strategia globale, capace di affrontare gli ostacoli presenti e futuri al raggiungimento della libertà e dell’uguaglianza, cioè di una pace giusta.

Un modo per fare questo è, ad esempio, sostenere e diffondere sempre più il movimento internazionale BDS, di boicottaggio, disinvestimento, sanzioni, che sottragga potere a chi persegue una politica di dominio e di occupazione.

Un altro è far conoscere e sostenere tutte quelle realtà, come quella dei Combattenti per la pace, gruppo misto di ex soldati israeliani ed ex combattenti palestinesi che, proprio a partire dalla loro precedente esperienza di combattenti e nemici, hanno scelto un’altra strada e ora lavorano insieme per la liberazione collettiva. Il 16 novembre, nella sala dell’Istituto Missioni Consolata, avremo modo di incontrare le due co-direttrici di questo movimento, che con la loro testimonianza offrono una prospettiva di futuro possibile.

Per uscire dal circolo vizioso dell’escalation e della distruttività è necessario interrompere questo ciclo e cercare altre strade; bisogna avere il coraggio di dire, con Sami Awad e tanti e tante altri/e palestinesi impegnati/e nella resistenza nonviolenta, che solo un’alternativa radicale alla violenza potrà porre fine alla violenza, all’occupazione, al sistema di guerra che domina il mondo.

E tutti noi dobbiamo fare la nostra parte.

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