Dal 15 al 21 novembre avremo il piacere di accogliere in Italia Eszter Koranyi e Rana Salman, co-direttrici del Movimento Combatants for Peace (Combattenti per la Pace) che i lettori de questa testata già conoscono per l’intervista in dialogo con Ilaria Olimpico il 13 febbraio scorso, che è stata poi raccolta insieme ad altri contributi nel libro ‘Combattenti per la Pace’ (Ed Multimage). Sarà una vera e propria tournée che, a partire dalla manifestazione Book City a Milano, toccherà poi le città di Torino (ospiti del Sereno Regis), Firenze e Roma (con Assopace Palestina), per concludersi infine a Napoli, ospiti del Festival del Cinema dei Diritti Umani.

Per gentile concessione delle autrici pubblichiamo questa riflessione che Eszter e Rana ci hanno fatto pervenire a un anno dalla tragica data del 7 ottobre. 

Svegliandoci il 7 ottobre di un anno fa, siamo rimasti tutti colpiti da un’ondata di shock mentre si diffondevano i resoconti dell’attacco di Hamas. Sembrava surreale, come fosse un film. Immagini di caos, paura e devastazione balenavano sui nostri schermi e, come tante persone da entrambe le parti, abbiamo provato un profondo senso di paura.

Com’era possibile che potesse accadere una cosa simile? Il mondo sembrava così incerto e i nostri cuori correvano al pensiero delle vite innocenti prese nel fuoco incrociato. Abbiamo provato una paura travolgente per le persone nelle aree colpite, chiedendoci come avrebbero affrontato una violenza così improvvisa.

E inoltre, come tutti i palestinesi e un gruppo molto più piccolo di attivisti per la pace israeliani – tra cui Vivian Silver, la fondatrice di Women Wage Peace, che ha perso la vita il 7 ottobre, uccisa da un razzo sparato sulla sua casa da Hamas – abbiamo provato profonda preoccupazione per coloro che si trovavano a Gaza, in ansia per le potenziali conseguenze e per la punizione collettiva che probabilmente ne sarebbe conseguita.

Per molti israeliani, il massacro ha consolidato la mancanza di fiducia nel raggiungimento di qualsiasi tipo di pace con il popolo palestinese. Mentre per circa mezza giornata, ai palestinesi è sembrato che quell’enorme macchina da guerra di Israele potesse essere sconfitta con semplici razzi, qualche trattore e con una massa di gente inferocita che riusciva finalmente a varcare la recinzione.

Possiamo comprendere entrambe le prospettive, ma siamo giunti a conclusioni diverse.

Combatants for Peace è un movimento fondato da ex combattenti israeliani e palestinesi che hanno raggiunto la fondamentale consapevolezza che i metodi che un tempo ritenevano necessari per proteggere le loro comunità alimentavano solo il ciclo di violenza e disperazione. Sapevamo che la risposta sarebbe stata sempre più violenza, ma abbiamo anche riconosciuto che ora più che mai il nostro compito era sostenere la convinzione che potesse esserci un altro modo.

La domanda era – ed è ancora – come? Come si muove un movimento congiunto nonviolento nel bel mezzo di una guerra? Come ascoltarci a vicenda?

Sempre lo stesso giorno, i messaggi hanno iniziato a piovere sul nostro gruppo WhatsApp Combatants for Peace. È stata una situazione senza precedenti sia per i palestinesi che per gli israeliani.

Ecco il messaggio del nostro attivista palestinese Ahmad: “Ora mi trovo bloccato tra la mia famiglia a Gaza mentre i miei amici sono in Israele. Prego che siano al sicuro. Mi preoccupo per loro“. Subito dopo, ecco il nostro attivista israeliano Moran: “Mi preoccupo per la mia famiglia che vive vicino a Gaza e per la tua famiglia a Gaza. Come vorrei veder finire questo stupido vortice di sangue…“.

Messaggio dopo messaggio, gli stessi toni di cura, empatia, solidarietà. La chiave è stata resistere al fatto che la nostra tristezza e la nostra paura dettassero la nostra risposta a questa situazione difficile e restare fedeli alle nostre convinzioni e al futuro che immaginiamo.

Benché immersi in queste esperienze di dolore, violenza e perdita, si prendevano ancora cura l’uno dell’altro con genuina gentilezza. Il loro sostegno ci ha dato la speranza di cui avevamo disperatamente bisogno.

Già l’8 ottobre, i leader del movimento sono entrati in azione e hanno organizzato rapidamente una serie di incontri online. L’intenzione era quella di creare uno spazio in cui entrambi i popoli potessero esprimere il loro dolore e la loro rabbia, consentendo a tutti i partecipanti lo stesso spazio di condivisione per molte ore di seguito. È stato un compito immensamente impegnativo, ma eravamo impegnati a mantenere la nostra convinzione nella nostra comune umanità. Crediamo che sia stato questo impegno a consentirci di sostenerci a vicenda in questi momenti.

Purtroppo sappiamo anche che perfino all’interno del piccolo gruppo di attivisti per la pace non tutti sono riusciti a rimettersi in piedi così in fretta e, quasi un anno dopo, possiamo riflettere sui nostri progressi.

Dedizione alla comunicazione nonviolenta

I nostri lunghi anni di esperienza nella comunicazione nonviolenta, nella comprensione reciproca delle sfumature culturali e nell’aver messo da parte la paura e deciso di incontrarci fisicamente dopo un lasso di tempo relativamente breve si sono rivelati inestimabili. Siamo stati fortunati ad avere le persone giuste al momento giusto.

Ci siamo anche resi conto rapidamente che non potevamo tenere per noi questo piccolo barlume di speranza. Quasi immediatamente, abbiamo iniziato a tenere delle sessioni online per un pubblico che vedevamo crescere in tutto il mondo. Abbiamo partecipato a tutte le manifestazioni che chiedevano la fine della guerra e il ritorno in sicurezza degli ostaggi, evidenziando le sofferenze a Gaza e chiedendo lo scambio totale, senza eccezioni, degli ostaggi a fronte dei prigionieri palestinesi. Abbiamo co-ospitato la 19a cerimonia congiunta del Memorial Day israelo-palestinese (in collaborazione con il Forum delle Famiglie in Lutto) così come la nostra 5a commemorazione congiunta della Nakba.

Abbiamo tenuto seminari bi-nazionali con decine di nuove persone che si sono unite da entrambe le parti. I nostri attivisti hanno continuato a fornire un servizio di presenza protettiva nella valle del Giordano, mettendosi letteralmente a rischio per opporsi ai coloni e alla violenza militare.

Abbiamo guidato attività educative per i giovani israeliani e palestinesi e lanciato un programma pilota per i giovani ebrei desiderosi di impegnarsi sul fronte dei diritti, sulle cause del conflitto e per la fine dell’occupazione. E abbiamo preso parte attiva a una campagna di azione diretta nonviolenta per supportare una comunità palestinese che rivendicava la proprietà della sua terra contro l’aggressione dei coloni ad Al-Makhrour vicino a Betlemme.

Nel ritrovarci più che mai uniti a un anno dal 7 ottobre, avvertiamo l’esigenza di fermarci a riflettere e al tempo stesso ci sentiamo orgogliosi di come, nonostante l’oscurità di questi tempi, il movimento dei Combattenti per la Pace continui a essere una testimonianza della resilienza dello spirito umano, evidenziando una comunità trasformata da esperienze condivise e da un desiderio collettivo di un futuro migliore.

Ciò detto, la guerra non è purtroppo un ricordo del passato; è un presente che subiamo ogni giorno e un futuro che paventiamo. Dal 7 ottobre, abbiamo ascoltato storie di perdite e sofferenze, che ci hanno ricordato quanto siamo coinvolti in tutto questo. Le cicatrici della guerra restano profonde e non si cancellano facilmente, e anzi ogni nuovo evento può riaprire in ogni momento le ferite.

La guarigione sarà un processo lungo e difficile. Eppure, anche in mezzo a questo dolore e a questa sofferenza, noi, attivisti per la pace israeliani e palestinesi nel Paese, e molti sostenitori internazionali all’estero, restiamo fermi nel nostro impegno per la nonviolenza, incarnando questo principio nelle nostre vite.

Quel che ci accomuna è la comprensione collettiva che la vera riconciliazione richiede tempo, duro lavoro e un impegno incrollabile, ma non ci arrenderemo, né rinunceremo al nostro sogno di un futuro condiviso.