Quante volte in occasione di un anniversario recente o meno recente ci siamo domandati dove eravamo in quel momento? “Dov’ero il 12 dicembre del 1969, l’11 settembre del 1973, il 9 novembre del 1989,  l’11 settembre del 2001?”, per ricordare solo alcune delle numerose date che hanno segnato la storia e la vita di milioni di persone, in tre dei casi citati, in modo drammatico.

Nel primissimo pomeriggio del 7 ottobre di un anno fa mi stavo recando a Jesi con altri due compagni di Senigallia a un attivo regionale dei centri sociali delle Marche. La mattina, come tutti i sabati, mi ero alzato piuttosto presto per andare a giocare a calcio nell’abituale partita con gli amici.  Quindi ho appreso ciò che era successo in Israele dal racconto fatto in auto da chi sapeva. Un’azione clamorosa e la prima cosa che ho pensato è stata: gli israeliani hanno vissuto in un giorno drammaticamente ciò che da decenni subiscono i palestinesi. E lo penso ancora.

Nelle ore successive e soprattutto nei giorni seguenti, mentre a Gaza si abbatteva la furia criminale del governo israeliano, trasformatasi nei mesi in un vero e proprio genocidio, parola da usare con molta prudenza ma che oramai nel caso in questione è entrata a pieno titolo anche nel vocabolario di analisti e osservatori non mainstream, le immagini e le testimonianze dei sopravvissuti al vero e proprio pogrom organizzato da Hamas parlavano da sole. Il bilancio dei morti si è fermato a 1200, di cui 800 civili, ai quali va aggiunto un numero imprecisato di vittime tra i 250 sequestrati dai miliziani palestinesi in questo anno, vittime soprattutto dei micidiali bombardamenti dell’Idf.

Non ci sono dubbi, è bene ribadirlo, che tra le decine di palestinesi che quel giorno invasero una parte di Israele, uscendo da quell’enorme ghetto che era diventata Gaza, ci fossero non solo miliziani, ma anche tanti giovani accecati dall’odio con alle spalle un’esistenza passata da sempre in mezzo a privazioni, repressione, umiliazioni perpetrate dai militari israeliani, senza mai uscire dalla prigione a cielo aperto.

La violenza e gli eccidi di quel  7 ottobre sono stati ampiamente raccontati. E’ stata una violenza che nella maggioranza dei casi ha colpito la generazione di abitanti dei kibbutz, molti anziani, che da sempre si erano battuti per la pace, al di là della palese contraddizione di chi è sionista e nello stesso tempo vuole una convivenza con chi è da sempre oppresso e che originariamente abitava proprio dove sorge la sua comunità.

Stessa considerazione si può fare per i giovani che erano al rave. Per esempio, uno di questi, rapito nel corso dell’invasione e ucciso a fine agosto da Hamas insieme ad altri 5 ostaggi,  Hersh Goldberg-Polin, 23enne israelo-americano, aveva il poster di Che Guevara nella camera da letto. Inoltre organizzare un  evento simile a poche decine di metri da Gaza, come è stato sottolineato, significa festeggiare accanto ad un inferno, e allora devi mettere in conto che l’inferno possa inghiottirti.

Certamente in alcuni casi nel corso dell’azione armata di Hamas e della prima risposta delle forze israeliane, come attestato anche da articoli usciti su Haaretz, ci sono state uccisioni di ebrei causate da “fuoco amico”, ma da qui arrivare ad affermare che si tratta di decine di persone, quasi ad ipotizzare che la maggioranza sia perita per mano dei militari dell’Idf, non solo è una stupidaggine, ma sostanzialmente una bugia.  L’ottusità di chi non vuole vedere l’evidenza.

Dopo la strage di Piazza Fontana e il defenestramento di Giuseppe Pinelli, nell’ambito della campagna di controinformazione per smascherare i veri autori dell’attentato, uscì una canzone molto amata – “La ballata di Pinelli” –  dove ad un certo punto si dice: “Un compagno non può averlo fatto”.  Una certezza su cui ci siamo cullati negli anni a venire, per poi scoprire, purtroppo, che anche un compagno poteva macchiarsi di cose di cui vergognarsi, come il “rogo di Primavalle”, o l’assalto a Torino di un bar ritenuto “covo” di fascisti, bruciando vivo un povero ragazzo che dallo spavento si era rifugiato nel bagno del locale, non ispezionato dai militanti prima di accendere il fuoco. Si chiamava Roberto Crescenzo.  Poi arrivò la lunga stagione del terrorismo di sinistra con tutto quello che ne conseguì e così dovemmo prendere atto che un “compagno” poteva farlo.

Ecco perché anche chi si batte contro un potere crudele può arrivare a pianificare un’azione che è speculare a quelle compiute in tutti questi anni dallo Stato oppressore. Anche perché  il soggetto politico che lo compie, in questo caso Hamas, è impregnato di una ideologia islamista la quale, almeno in teoria, non dovrebbe essere condivisa da chi lotta per un mondo molto diverso da quello che vorrebbe il fondamentalismo islamico, mondo evidenziato, per citare solo alcuni Paesi, dall’Iran degli ayatollah o dall’Arabia Saudita, alleata degli Usa.

E’ vero che a partire dall’inizio del muovo millennio Hamas ha incontrato un crescente consenso tra la popolazione palestinese per i noti motivi, fino a diventare per lungo tempo la forza egemone, consenso in parte incrinato dopo le conseguenze nefaste che il pogrom del 7 ottobre ha prodotto su Gaza e la Cisgiordania. Questo consenso lo si registra anche tra i palestinesi della diaspora, soprattutto tra i giovani, ma questo può portarci a tacere su verità palesi?

Nei primi mesi in cui la ferocia di Netanyahu e del suo esecutivo si è diffusa a piene mani, nel rapportarsi con i palestinesi residenti nei nostri territori, non pochi in fuga dall’orrore e con la tragedia di aver visto morire i propri cari, tanti amici e amiche, era comprensibile omettere certe osservazioni sul 7 ottobre, o su Hamas, evitare, non convinti, determinate critiche, anche perché a nostra volta pieni di rabbia, che c’è ancora di più oggi, di fronte agli accadimenti. Ma dopo un anno è condivisibile questa scelta? E’ possibile tacere, reprimere un punto di vista che non può accettarne un altro così diverso?

E qui entra in ballo la manifestazione di sabato 5 a Roma. La guerra scatenata da Israele come vediamo si sta allargando, con il consenso del mondo occidentale (e a proposito di consenso sconcerta verificare come la maggioranza degli israeliani sia schierata con il loro premier, contro cui è stato spiccato un mandato di cattura internazionale, un consenso che conferma come il lungo processo di fascistizzazione della società israeliana abbia probabilmente toccato l’apice) ed è quindi sacrosanto scendere in piazza, anzi è fondamentale.

Ma ha ragione Massimo Cacciari: non si manifesta a ridosso di un anniversario che ricorda una strage, un pogrom. Il problema è che una buona parte della comunità palestinese ritiene che quello sia stato un “atto di resistenza”, e ancora peggio lo pensano quei soggetti di casa nostra i quali evidentemente usano due pesi e due misure: se a massacrare sono “loro” si deve definirli crimini”, se lo fanno “i nostri”, (Hamas è dei nostri?), va bene. Giustamente in numerose occasioni si denuncia il doppio standard delle cancellerie occidentali. Fa strano che chi lo critica cada nella stessa logica.

Il divieto del governo nei confronti della manifestazione ha spostato in parte il tiro, e probabilmente ha favorito una partecipazione che sarebbe stata minore senza la scelta dell’esecutivo, ma questo non può farci dimenticare il resto.

L’imprescindibile solidarietà nei confronti del popolo palestinese, la lotta contro ogni forma di fascismo internazionale e nazionale, qui ancora più necessaria di fronte al ddl sulla “sicurezza”, sono fondamentali. Sarebbe il caso che ciò avvenga nella massima chiarezza, provando ad aprire il confronto anche con le comunità palestinesi della diaspora.  E’ essenziale per impedire una deriva politica e culturale che non ci possiamo permettere.