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Non solo “profilazione etnica”. Pubblicato il rapporto-ECRI: il documento complesso la cui redazione ci dice molto sulla situazione vigente. Illustra non solo lo stato dell’arte in Italia, ma anche le sfide che devono essere ancora affrontate contro le discriminazioni e il razzismo

Al sesto ciclo di monitoraggio, che copre il periodo dalla seconda metà del 2018 all’aprile 2024, mai forse un rapporto dell’ECRI (Commissione Europea contro il Razzismo e l’Intolleranza) è riuscito a smuovere così profondamente il dibattito politico in tema di razzismo. Il rapporto non parla solo della questione del razzismo presente all’interno delle forze dell’ordine – tema particolarmente caldo anche alla luce dell’uccisione di Moussa Diarra, avvenuta lo scorso lunedì per mano di un agente di polizia – ma analizza in dettaglio nelle sue 48 pagine numerosi altri aspetti

Attraverso testimonianze raccolte e dati presenti in vari rapporti nazionali e internazionali, l’ECRI analizza il ruolo delle equality bodies nell’accesso e nella garanzia della parità di diritti, la diffusione dei cosiddetti discorsi e le violenze motivate dall’odio, i processi di “integrazione” delle persone migranti e rom nella società e, infine, il razzismo istituzionale, che si manifesta, non solo ma anche nella pratica di quella è definita a livello internazionale “profilazione etnica” da parte delle forze dell’ordine. Uno dei punti di maggiore interesse, richiesto da tempo da Lunaria e da molte altre organizzazioni della società civile, riguarda la necessità «di finalizzare ed adottare tempestivamente un Piano d’azione nazionale contro il razzismo», attualmente in fase di elaborazione da parte dell’UNAR. La Commissione Europea contro il Razzismo e l’Intolleranza ribadisce inoltre la storica richiesta di rendere l’UNAR indipendente dal potere esecutivo per garantire diritti fondamentali che siano indipendenti dalle politiche adottate dai governi che si susseguono. Quando si parla di razzismo, spesso lo si fa in relazione ai fenomeni migratori, data la particolare condizione di vulnerabilità in cui le persone migranti si trovano. Tuttavia, le discriminazioni e il razzismo attraversano anche la vita di molte persone già presenti in Italia, in vari ambiti. Spesso, le denunce di discriminazione non vengono presentate da parte dei migranti privi di titolo di soggiorno per paura di ricevere un provvedimento di espulsione e restano imprigionati in un circolo di sfruttamento lavorativo, esclusione abitativa e difficoltà di accesso al servizio sanitario nazionale. Nel rapporto, dunque, «l’ECRI sollecita la creazione di misure efficaci (“firewall”) per garantire i diritti umani fondamentali dei migranti in situazione irregolare in settori quali l’istruzione, l’assistenza sanitaria, l’alloggio, la previdenza e l’assistenza sociale, la protezione del lavoro e l’accesso alla giustizia. Tali misure protettive dovrebbero separare le attività di controllo e contrasto dell’immigrazione dalla fornitura di servizi, in modo che i migranti in situazione irregolare presenti in Italia non si astengano dall’accedere ai loro diritti per paura di essere espulsi». Il Piano d’azione nazionale contro il razzismo, secondo ECRI, dovrebbe occuparsi anche dei cosiddetti «discorsi d’odio e la violenza motivata dall’odio», spesso perpetrati da esponenti delle istituzioni, in particolare durante le campagne elettorali degli ultimi cinque anni. È ormai ben noto, infatti, come le persone di origine straniera, le comunità rom e sinti, e le soggettività LGBTQIA+ siano frequentemente strumentalizzate nel discorso pubblico, con un impatto significativo sulle loro vite.

da cronachediordinariorazzismo. Il rapporto integrale è :scaricabile dal sito del Consiglio d’Europa [clicca coe]

 

Nella “Giornata mondiale dell’alimentazione” OXFAM ha pubblicato un nuovo rapporto sulle guerre e sulle vittime che i conflitti causano attraverso l’insicurezza alimentare. A causa dei conflitti bellici ogni giorno migliaia di persone muoiono di fame

“Le crisi alimentari di oggi sono in gran parte fabbricate. Quasi mezzo milione di persone a Gaza – dove l’83% degli aiuti alimentari necessari non li raggiunge attualmente – e oltre tre quarti di milione in Sudan, stanno attualmente morendo di fame poiché l’impatto mortale delle guerre sul cibo sarà probabilmente sentito per generazioni”

Tra 7.000 e 21.000 persone probabilmente muoiono ogni giorno di fame nei paesi colpiti dal conflitto, secondo un nuovo rapporto di Oxfam pubblicato sulla Giornata mondiale dell’alimentazione. Il rapporto, Food Wars, ha esaminato 54 paesi colpiti dal conflitto e ha scoperto che rappresentano quasi tutti i 281,6 milioni di persone che affrontano oggi la fame acuta. Il conflitto è stato anche una delle principali cause di sfollamento forzato in questi paesi, che a livello globale ha raggiunto oggi un livello record di oltre 117 milioni di persone. Sostiene che il conflitto non è solo un fattore primario della fame, ma che le parti in guerra stanno anche attivamente armando il cibo stesso prendendo di mira deliberatamente le infrastrutture alimentari, idriche ed energetiche e bloccando gli aiuti alimentari. Il rapporto ha anche rilevato che la maggior parte dei paesi studiati (34 su 54) sono ricchi di risorse naturali, facendo molto affidamento sull’esportazione di materie prime. Ad esempio, il 95% dei proventi delle esportazioni del Sudan proviene dall’oro e dal bestiame, l’87% del Sud Sudan proviene da prodotti petroliferi e quasi il 70% del Burundi proviene dal caffè. Il rapporto ha anche rilevato che la maggior parte dei paesi studiati (34 su 54) sono ricchi di risorse naturali, facendo molto affidamento sull’esportazione di materie prime. Ad esempio, il 95% dei proventi delle esportazioni del Sudan proviene dall’oro e dal bestiame, l’87% del Sud Sudan proviene da prodotti petroliferi e quasi il 70% del Burundi proviene dal caffè. In America Centrale, nel frattempo, le operazioni minerarie hanno portato a conflitti violenti, sradicando le persone dalle loro case man mano che non sono più in grado di vivere in ambienti degradati e inquinati. Oxfam sostiene che attualmente gli sforzi di costruzione della pace e di ricostruzione post-conflitto si basano troppo spesso sull’incoraggiamento di più investimenti esteri ed economie legate alle esportazioni. Tuttavia, questa attenzione alla liberalizzazione economica può invece creare più disuguaglianza, sofferenza e il potenziale per la ripresa del conflitto.

da Pagine Esteri //Rapporto-Oxfam

 

Quello che nessuno e nessuna dice sulle migrazioni: I dati aiutano a fare chiarezza, peccato che nessuno li citi, li controlli, perlomeno li guardi. L’UNHCR periodicamente aggiorna i dati mondiali sulla situazione delle persone che scappano dalle moltissime guerre in atto

“Nel mondo – con riferimento ai dati-UNHCR del 2024 – sono 122.6 milioni le persone costrette a scappare, di cui 37,9 milioni quelle che hanno effettivamente ottenuto una Protezione Internazionale, basta controllare sul sito, purtroppo – dice Cristina Formica nel suo articolo – per qualcuno o qualcuna in inglese” [https://www.unhcr.org/refugee-statistics]

Il nostro paese è coinvolto [NdC] come nazione e come Unione Europea, un pò in tutte le guerre, queste armi con cui si combatte in Sudan o in Siria qualcuno le venderà, le trasporterà da una fabbrica a un porto sul territorio in cui si affronta militarmente. A quanto pare, la completa indifferenza verso l’ONU ci porta a non considerare neanche le statistiche che fornisce, forse per indifferenza questi numeri neanche sono disconfermati, che però sono chiari e ribaltano in modo convinto l’ottica con cui guardiamo ai fenomeni migratori di massa su tutto il pianeta. Nessuno cita le statistiche mondiali, però chiunque parla di questo grande movimento mondiale, a cui appartiene tutta l’umanità da millenni in cammino, in senso reale e figurato, verso altri territori in cui sperare e rinascere. Nessuno racconta della propria famiglia, perché in Italia quasi ogni persona può citare un nonno o una nonna, una prozia, un parente che ha dovuto lasciare la sua terra per andare ad ingoiare l’orgoglio e l’amor proprio rispetto ad altri razzisti. Non sono passati più di 50 anni da quando nei negozi del nord Europa esponevano cartelli che vietavano agli emigrati italiani anche solo di prendere un caffè; non sono passati più di 35 anni da quando la Lega, allora anche Nord, emerse contro il Sud pigro, ladro, ruffiano, mafioso, e tutte le possibili offese che il mondo aveva sempre rivolto al Nord ed al Sud italiani quando varcavano, spesso anche in modo illegale, le frontiere nazionali. Si parla solo di clandestini che sbarcano, nascondendo al dibattito pubblico il fatto che la Costituzione garantisce l’Asilo Politico (purtroppo solo attraverso questa Carta, nessuna legge all’orizzonte da decenni), aiuto espresso chiaramente con l’Articolo 10, ma un po’ tutti i Diritti Fondamentali costituzionali ci impongono un’attenzione a chi è veramente molto meno fortunato di noi, e spesso anche a causa nostra. Chi viene citato come clandestino, in realtà è una persona, uomo e donna oltre che spesso anche minore (il 40% a livello mondiale hanno meno di 18 anni), che fugge da guerre interne ed esterne, da persecuzioni personali e collettive, violenze e povertà spesso preparate su tavoli tra governi corrotti e grandi potenze, o direttamente con grandi multinazionali, che poi sono le potenze più potenti che ci sono. Quello che indigna, oltre che preoccupa e lascia piuttosto allucinati, è che nessuno delle strutture che potrebbero veramente informare, usa i dati UNHCR su queste grandi migrazioni di “clandestini”… Insomma, tranne qualche voce isolata e spesso tacitata, i numeri fornirebbero ai mass media la possibilità di fare una seria informazione e, perché no, anche una robusta controinformazione, un vero contributo al servizio pubblico, che la comunicazione deve alla cittadinanza. Ma in Italia no, la comunicazione deve contribuire al tema di pancia dell’odio verso il diverso, vero e puro razzismo, che un po’ tutte le compagini governative e politiche fanno da anni in Italia, un soffiare sul fuoco e sul fascismo mai abbandonato della politica nazionale.

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L’importanza e la necessità del referendum e di una riforma strutturale sulla cittadinanza. Il ruolo della scuola per la creazione di una nuova idea di cittadinanza: bisogna concepire la cittadinanza come un diritto e non una semplice concessione, per chi si è distinto per meriti o fama

In Italia ci sono oltre due milioni e mezzo di persone che aspettano che questa legge venga ridiscussa e cambiata. Per quanto riguarda il censimento scolastico nelle scuole italiane sono presenti 914 mila alunni e alunne con cittadinanza non italiana, pari all’11,2% degli iscritti nelle scuole del paese. Il 65% di questi è nata in Italia (2 studenti su 3) ma non possono accedere alla cittadinanza fino a 18 anni. Semplicemente questo dato dovrebbe farci comprendere quanto serva una riforma che metta al centro il criterio dello ius soli come condizione principale e necessaria.

La legge 91/1992, che disciplina i criteri per l’ottenimento della cittadinanza, quando fu sottoscritta nacque già superata, poiché presentava e presenta un’idea di appartenenza alla comunità basata su un principio nazionalistico e sul criterio di discendenza (ius sanguinis). In sostanza è una legge priva di visione e incapace di leggere i segnali di cambiamento sociale, demografico, economico, culturale e politico. La legge in questione risulta essere una barriera giuridica che limita il godimento di diritti civili, sociali e politici. La questione della cittadinanza dovrebbe essere affrontata mettendo al centro le parole e le esperienze di chi, sulla propria pelle, sente ricadere l’esclusione dalle pari possibilità e opportunità che l’articolo 3 della Costituzione mette al centro per la piena realizzazione della vita. Il mezzo milione di firme raccolte necessarie per indire il referendum sulla cittadinanza – che, in un primo momento, dovranno essere verificate dalla Corte di cassazione, per poi passare, in un secondo momento, sotto il giudizio di ammissibilità da parte della Corte Costituzionale, – rappresentano solo il primo passo di un processo più lungo che possa permettere di arrivare a una riforma integrale della disciplina sulla cittadinanza. Il risultato del referendum, che con ogni probabilità si terrà tra il 15 aprile e il 15 giugno 2025, dovrà avere la funzione di apripista e punto di partenza prioritario che sappia innescare un cambiamento sociale e culturale. La costruzione di una nuova idea di cittadinanza è un fattore di importanza primaria in un paese in cui la “multietnicità” non è più una mera eccezione. Lo vediamo a scuola, nei luoghi di lavoro e nelle strade delle nostre città : una riforma integrale della cittadinanza, che estenda l’ottenimento tramite ius soli, dovrebbe essere pertanto concepita come un valore aggiunto e non come pericolo o come pretesto per costruire tesi complottiste e razziste.

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