L’ altro ieri – 11/10/24 – il governo annunciava l’avvio delle deportazioni in Albania dei migranti soccorsi da navi militari italiane in acque internazionali. Non ci poteva essere data più significativa di questa per magnificare l’avvio dei centri di detenzione in Albania e delle deportazioni di migranti soccorsi in acque internazionali da navi militari italiane _ 

 

1.  L’11 ottobre del 2013, a pochi giorni dalla strage di Lampedusa, si verificava una strage di Stato, con l’affondamento, a sud di Malta, di un barcone carico di naufraghi, dopo che per ore le autorità italiane e maltesi si erano palleggiate la responsabilità di intervenire per salvare la vita a 268 persone, tra cui 60 minori.

Mentre il processo a carico degli imputati , al tempo dei fatti il comandante della sezione operazioni di Cincnav, il Comando in capo della squadra navale della marina, e il responsabile della sala operativa di coordinamento della guardia costiera di Roma. si è estinto per prescrizione dei reati, la Corte di Appello di Roma, su ricorso delle parti civili, il 25 giugno di quest’anno, ha rigettato le richieste di assoluzione ed ha ritenuto civilmente responsabile lo Stato italiano, con una sentenza che però è ancora soggetta al vaglio della Corte di Cassazione. 13 anni non sono bastati per fare giustizia su quella strage.

Per una migliore interpretazione di quanto scritto nella sentenza, occorre ascoltare la registrazione delle udienze del processo in primo grado, disponibile su Radio Radicale. Il quadro che se ne ricava è drammatico, per la sorte di tante persone che interventi di soccorso più tempestivi avrebbero potuto salvare e dimostra come già allora la distinzione tra eventi di immigrazione irregolare (law enforcement) ed interventi di ricerca e salvataggio (SAR), adottata ancora di recente, abbia prodotto, e produca anora oggi, effetti letali. Il 27 gennaio 2021 il Comitato per i diritti umani dell’ONU aveva affermato una responsabilità concorrente a carico di Italia e Malta per il naufragio affermando che ““anche se l’imbarcazione che stava affondando non si trovava nella zona SAR italiana, le autorità italiane avevano il dovere di appoggiare la missione di ricerca e soccorso”.

Adesso il governo Meloni apre i centri di detenzione in Albania , che secondo l’art. 3 comma 2 della legge di ratifica, saranno riservati solamente a persone imbarcate su mezzi delle autorità italiane, anche a seguito di operazioni di soccorso, in zone situate all’esterno del mare territoriale della Repubblica o di altri Stati membri dell’Unione europea. Dunque a naufraghi che saranno soccorsi nelle zone di acque internazionali, oltre 12 miglia dalla costa, che potrebbero essere quelle comprese nelle zone SAR della Libia e della Tunisia, ma anche nella zona SAR maltese, al di fuori del mare territoriale, dunque nella stessa zona di alto mare nella quale nel 2013 si verificava la strage dei bambini. Una previsione contenuta in una legge dello Stato, per ratificare il Protocollo Italia-Albania, che sconfessa i divieti di sbarco imposti nel 2018 e nel 2019 alle navi militari Diciotti e Gregoretti, alle quali veniva impedito per giorni lo sbarco dei naufraghi soccorsi in acque internazionali. Sembra al contrario che si riconosca come doverosa l’attività di ricerca e soccorso da parte di navi militari italiane nelle acque internazionali, proprio nelle zone SAR maltese, “libica” e tunisina. Anche se al fine di deportare i naufraghi in Albania così da potere innescare una sorta di dissuasione delle partenze, proposito perseguito da anni con le politiche di limitazione dei soccorsi istituzionali, di allontanamento delle ONG e di deterrenza dei soccorsi. Un tentativo che passa anche attraverso il Decreto Piantedosi (legge n.15/2023) per la “gestione dei flussi migratori”, ma che è sempre fallito, a parte l’aumento delle vittime.

 

2. La Relazione ilustrativa del disegno di legge di ratifica del Protocollo Italia Albania ricorda che nella sentenza n. 6626/2020 la Cassazione penale (sez. III, c.d. caso Rackete) si stabilisce che l’obbligo di prestare soccorso dettato dalla convenzione internazionale SAR di Amburgo, non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. “place of safety”). Ad ulteriore conferma di tale interpretazione la Corte di Cassazione ha richiamato la risoluzione n. 1821 del 21 giugno 2011 del Consiglio d’Europa (L’intercettazione e il salvataggio in mare dei domandanti asilo, dei rifugiati e
dei migranti in situazione irregolare), secondo cui “la nozione di “luogo sicuro” non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali” (punto 5.2.) che, pur non essendo fonte diretta del diritto, costituisce un criterio interpretativo imprescindibile del concetto di “luogo sicuro” nel diritto internazionale. La domanda che si pone oggi è : quanto saranno rispettati i diritti fondamentali dei migranti deportati, dopo essere stati socorsi in acque internazionali da navi militari italiajne, e soltanto loro, nei centri di detenzione in Albania ?

Se da una parte la legge di attuazione del Protocollo Italia-Albania smentisce espressamente le prassi di “chiusura dei porti” applicate in passato, anche nei confronti delle navi militari, da parte dell’ex ministro dell’interno Matteo Salvini, lo stesso Protocollo rimane in insanabile contrasto non solo con la normativa dell’Unione europea, come potrebbe essere stabilito presto dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, malgrado le dichiarazioni rassicuranti del ministro Piantedosi, ma anche con l’art.53 della Convenzione di Vienna, secondo cui ” E’ nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale ((jus cogens).

Il trattenimento amministrativo dei migranti deportati in Albania, secondo il ministro Piantedosi, in centri di “trattenimento leggero”, non ricade sotto la esclusiva giurisdizione dello Stato italiano, e dunque europea, come si vorebbe fare credere, spettando alle autorità albanesi il compito di vigilanza esterna dei centri e di ripristino dela misura limitativa della libertà in caso di fuga, oltre che la cooperazione operativa nelle attività di rimpatrio con accompagnamento forzato, evidentemente da un aeroporto albanese.

Il trasferimento in Albania non avverrà a bordo della nave militare che ha effettuato i soccorsi, ma su una nave traghetto civile sulla quale, probabilmente nei pressi di Lampedusa, si dovrebbero trasbordare i naufraghi maschi, maggiorenni, senza particolari vulnerabilità. Una operazione di trasbordo e di screening che non è ancora consentita dala normativa internazionale e dalle Direttive europee a bordo di una nave civile diretta cerso un porto di un paese extra UE. Ma che richiederebbe lo sbarco a terra in Italia, sotto la piena ed esclusiva giurisdizione italiana ed europea, dei naufraghi ed una loro completa informazione con la possibilità di documentare la richiesta di protezione e di farsi assistere da un avvocato di fiducia. Al fine di fare emergere quelle vulnerabilità e quelle istanze di protezione, anche se provengono da paesi di origine “sicuri”, che sicuramente non sarà possibile accertare a bordo di una nave traghetto in alto mare, e tantomeno a bordo di una nave militare, anche se il governo dà per certa la presenza dell’UNHCR. I rimpatri dall’Albania verso i paesi di origine, attuati con il concorso delle forze di polizia albanesi, si potrebbero risolvere così, dopo trattenimenti arbitrari, in respingimenti collettivi, vietati dalla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo, con la possibile violazione del divieto di respingimento affermato dall’art.33 della Convenzione di Ginevra e delle Convenzioni internazionali di dirito del mare, rese vincolanti per l’Italia oltre che dalle leggi di ratifica, dal Regolamento europeo Frontex n.656/2014.

A volte ritornano, si potrebbe dire.Sembra che il compito di fare i primi trasbordi in alto mare, in vista del trasferimento in Albania, potrebbe essere assegnato alla nave “Libra” della Marina Militare, la stessa che è stata al centro della strage dei bambini dell’11 ottobre 2013. Quali che siano le navi militari o civili impiegate nei soccorsi in acque internazionali e poi nelle deportazioni verso l’Albania, non vorremmo che la strategia della deterrenza dei soccorsi in mare, propagandata dal governo italiano nell’intero globo terraqueo, per usare una espressione cara alla premier Meloni, producesse altre vittime innocenti. Magari per i tentativi di sfuggire alla “cattura”, piuttosto che al salvataggio, in acque internazionali da parte delle navi militari italiane, che potrebbero sfociare in mancati soccorsi, o peggio in stragi analoghe a quella dell’11 ottobre 2013, sulla quale ancora oggi non si è riusciti a fare giustizia.

 

pubblicato anche su Adif.org