Ricordate certamente Masha Amini, la ragazza iraniana arrestata per non aver indossato correttamente il suo hijab e poi morta in carcere.
Il secondo anniversario della sua scomparsa, il prossimo 18 settembre, non ci troverà nelle piazze a sollevare il velo, così come accadeva due anni fa sull’onda mediatica della commozione che si faceva sdegno, ma altre iniziative stanno nascendo.
Masha non fu la sola a ribellarsi: nacque il movimento “Donna Vita Libertà”, che fece suo il motto delle compagne curde di Jinialogy e di cui la reporter indipendente e regista iraniana Maysoon Majidi fu convinta attivista, perseguitata perciò nel suo paese e costretta a fuggire in Iraq, dove ottenne lo status di rifugiata.
Da lì, insieme al fratello, scappò ancora per imbarcarsi dalla Libia e giungere in Europa, ma venne arrestata in Italia con l’accusa di “scafismo” ed ora si trova nelle carceri calabre, dove in questi giorni ha ripreso uno sciopero della fame, iniziato già a maggio e poi interrotto, e dove ha scritto una memoria di 19 pagine in farsi, tradotta da alcune compagne curde, che sta facendo il giro del mondo.
A lei e all’altra donna imprigionata con lei ed ora agli arresti domiciliari con il figlioletto di otto anni, Marjan Jamali, è stata dedicata la serata del 16 settembre dai giovani di Maldusa.
Alle leggi contro la libertà delle donne del governo iraniano hanno fatto seguito quelle del governo afghano, che alle donne non nega solo il volto, ma adesso anche la voce.
La storia che ci ritroviamo a ricordare e di cui sentiamo la necessità di essere testimoni a difesa, però, non ha a che fare solo con questi due paesi e con la loro feroce repressione dell’esistenza stessa delle donne, ma si sposta in Italia dove ancora una volta si aggiunge ingiustizia a ingiustizia, violenza a violenza.
Maysoon Majidi e Marjan Jamali sono entrambe kurdo-iraniane e incolpate di essere scafiste al loro arrivo in Italia dopo avere attraversato il Mar Mediterraneo.
In realtà a Maysoon viene contestato soltanto di aver distribuito acqua sul barcone e a Marjan di aver sequestrato i telefonini dei migranti, neppure di essere alla guida della barca a vela… Pretesti, insomma…
Delle diciannove pagine di Maysoon che sono arrivate fino a noi nella traduzione italiana le giovani donne di Maldusa ci leggono poche righe, quanto basta a farci sentire il peso di una detenzione mirata a colpire la donna e la sua voce.
Donna e madre, Marjan, e di questa sua maternità fuori dalle nostre convenzioni la giustizia si è servita per rendere più credibile la sua accusa, tacciandola di incuria.
Certo la criminalizzazione del migrare e del soccorso è sistemica, ma in questo caso si è mirato alle donne in quanto tali, entrambe a loro modo esemplari: l’una perché impegnata politicamente e nota per la sua attività sui media (ma proprio questa sua peculiarità che si vuol annientare può ritorcersi contro i persecutori, con la diffusione della denuncia dei soprusi subiti), l’altra attaccata secondo i parametri patriarcali per la “trascuratezza” nel suo ruolo materno.
Ora Marjan è agli arresti domiciliari e preferisce abbracciare il figlio nell’intimità delle sue stanze piuttosto che rendere pubblico e visibile il dolore, a beneficio delle nostre coscienze in cerca di discolpa.
Di lei, dunque, si parla poco, proprio perchè ha scelto di restare nell’ombra.
Più di tutti i comunicati e del memoriale, però, parlano le immagini del cortometraggio Thirsty Flight, girato in Iraq nel 2021 proprio da Maysoon, che lo interpreta anche, e da Edris Abdi ed autoprodotto.
Racconta la storia di un giovane laureato in scienze politiche che si trova costretto per via della disoccupazione a praticare il contrabbando al confine tra Iran e Iraq kurdi e finisce in un campo profughi, dove incontra una maestra rifugiata che insegna la libertà alle sue piccole alunne.
Il film si chiude con una nota di speranza tinta d’azzurro nelle mani delle bambine che dipingono guidate dalla stessa regista, la quale squarcia con i suoi gesti il buio originario della notte. È proprio un omaggio al diritto d’asilo questo documentario, mentre Maysoon si trova a passare da un carcere all’altro.
In difesa delle due donne si sono costituiti qui da noi Comitati per la loro
liberazione, mentre dal carcere di Teheran giunge un messaggio di solidarietà che ci informa di un digiuno di protesta iniziato dalle detenute.
Intanto, mentre interpreti e avvocati le consigliano di tacere, Maysoon non sta zitta: si alza in piedi in tribunale per assumere personalmente la propria difesa e, nelle poche parole di italiano che ha imparato in galera, racconta ancora una volta la sua storia.
Il 18 di settembre ci sarà la prossima udienza ed è previsto un presidio davanti al palazzo di giiustizia di Crotone. Nei giorni 1ottobre e 22 ottobre saranno ascoltati altri testimoni. La sentenza di primo grado è attesa per il 5 novembre: Maysoon rischia una condanna fino a 10 anni più una multa di 15.000 euro per ogni migrante a bordo nonchè il rimpatrio forzato.
Durante il dibattito – e prima della cena per la raccolta fondi – ascoltiamo tra gli altri un compagno del Senegal, che ha subito anche lui la detenzione con l’accusa di essere alla guida di una barca.
Ci narra dell’orrore della prigione, specie dopo le torture e con le malattie contratte in Libia, e restituisce con il suo racconto la solidarietà ricevuta quando era dietro le sbarre.
La nostra prospettiva politica, concludiamo, è e non può che essere la decriminalizzazione di chiunque passi le frontiere, di ogni forma di migrazione, ma anche di soccorso e sostegno agli esuli.