Dal 27 al 29 settembre 2024, presso il quartiere dell’Isolotto a Firenze, si terrà la prima edizione del Festival locale di Eirenefest, Festival del libro per la pace e la nonviolenza, incentrato sulla Comunità Educante. Tra i temi che saranno trattati ci sarà quello dell’Obiezione di Coscienza.

A tal proposito, domenica 29 settembre dalle ore 12 alle ore 12:45, presso la Casetta verde di Villa Vogel (Via Antonio Canova, 72), verrà presentato il libro, edito dal Centro Gandhi Edizioni, Pisa 2019, Uno spicchio di cielo dietro le sbarre. Diario dal carcere di un obiettore di coscienza al servizio militare negli anni ’70, di Claudio Pozzi. Assieme all’autore dialogherà Olivier Turquet.

Claudio Pozzi, nato a Napoli nel 1948, felicemente sposato con Nicoletta Caterino, vive ora a Padula (SA) dove svolge la professione di artigiano del cuoio. Fautore dell’obiezione di coscienza al servizio militare e dell’obiezione fiscale alle spese militari, nell’anno accademico 2013/14 si è laureato in Scienze per la Pace presso l’Università di Pisa. Il libro è un’autobiografia dell’autore, obiettore di coscienza al servizio militare, che nel 1972 fu detenuto nel carcere militare di Gaeta per essersi rifiutato di arruolarsi nell’esercito. Il 15 dicembre del 1972 fu approvata la legge sull’obiezione di coscienza al sevizio militare che permise ai giovani di poter svolgere un servizio civile alternativo. A ciò si arrivò sull’onda di un forte movimento di opinione pacifista e antimilitarista, creatosi attorno ad alcune decine di giovani che avevano affrontato il carcere pur di non contravvenire ai propri principi. L’autore di questo libro, allora 24enne, fu uno di questi. Avendo rifiutato di fare il servizio militare, fu detenuto nel carcere militare di Gaeta per 5 mesi e 10 giorni.

Abbiamo raggiunto l’autore per porgli alcune domande:

 

Da dove nacque la sua idea di fare obiezione di coscienza?

La mia indole è sempre stata, sin da piccolo, di carattere nonviolento.

Nei confronti di compagni e amici ho sempre cercato il dialogo senza reagire a cattiverie nei miei confronti, verificando, così, che rinsaldavo amicizie.

Quindicenne, rimasi sconvolto quando nel 1963 morirono prima Papa Giovanni XXIII e poi J.F. Kennedy, sui quali avevo molto contato per il raggiungimento della pace, viste le tante guerre che vi erano nel mondo.

Per diversi anni frequentai l’Azione Cattolica, facevo il chierichetto, e ciò mi permetteva di ascoltare gli insegnamenti del Vangelo dai quali ebbi conferma del mio modo di pensare: “ama il tuo nemico”, “porgi l’altra guancia”, e così via.

Erano gli anni della contestazione giovanile caratterizzati da fatti rilevanti: il movimento hippy, i Beatles, i movimenti studenteschi del ’68, il Festival di Woodstock. Personaggi come Martin Luther King, Bob Dylan, Joan Baez ispiravano sentimenti di pace, solidarietà e nonviolenza; inoltre, in tutto il mondo c’era la grande mobilitazione contro la guerra del Vietnam. Negli Stati Uniti i giovani chiamati ad arruolarsi bruciavano le cartoline. Tutto ciò condizionò notevolmente la cultura giovanile di quell’epoca e anche io ne fui influenzato.

Partecipai nel novembre del ‘67, a Roma, alla grande manifestazione per la pace organizzata da Danilo Dolci; davanti a Montecitorio eravamo in cinquecentomila.

Dopo l’Azione Cattolica mi unii a una comunità cristiana di base; ci impegnavamo nelle situazioni di disagio della nostra città, Napoli. Nel gennaio del ’68 andammo in soccorso nelle zone terremotate del Belice. Mi sembrava assurdo, quindi, che avrei dovuto perdere un anno della mia vita nell’esercito a svolgere compiti in completa contraddizione con le mie convinzioni e il mio impegno sociale.

In Italia non era ancora prevista una legge che riconoscesse il diritto di chi, per motivi di coscienza, non era disposto a svolgere il servizio militare ma era, comunque, disponibile a fare un servizio civile sostitutivo. Chi si rifiutava di indossare la divisa veniva arrestato, processato e subiva un periodo di detenzione; ma poi non cessava l’obbligo del servizio militare e, se obiettava ancora, subiva altri arresti, processi e detenzioni per un totale di diversi anni.

In Parlamento, sin dalla Costituente, c’erano state varie proposte di legge, ma nessuna di esse veniva promulgata. C’era, quindi, una grande agitazione tra i movimenti antimilitaristi e pacifisti che decisero di mobilitarsi con maggiore forza affinché venisse approvata finalmente una legge sull’obiezione di coscienza; quindi si coordinarono e decisero che si sarebbero dovute fare obiezioni di massa con dichiarazioni collettive da sostenere con molteplici iniziative.

Fu naturale per me partecipare, con la mia obiezione, a questa mobilitazione; rifiutai, quindi, di arruolarmi e fui arrestato, processato e condannato alla detenzione nel carcere militare di Gaeta.

 

Tra le lettere di solidarietà che ricevette in carcere quale la colpì di più? 

Innanzitutto preciso che le lettere di solidarietà venivano spedite alla comunità, non in carcere dove sarebbero state fermate dalla censura. Per motivi personali, di cui ho parlato nel libro, le lessi solo dopo oltre 30 anni.

Rimasi impressionato ed emozionato per tanta solidarietà ricevuta da semplici cittadini, comunità, sacerdoti, vescovi, pastori valdesi ed evangelici, dal sindaco di Firenze La Pira, dal deputato Fracanzani che aveva fatto la proposta di legge sull’obiezione di coscienza maggiormente gradita e condivisa dai movimenti.

Provai molto piacere nel constatare che mi avevano scritto tanti che avevo incontrato personalmente nel periodo precedente l’obiezione: Padre Ernesto Balducci, la teologa Adriana Zarri e il francescano Pio Falcolini che erano venuti a trovarci in comunità; il vescovo Luigi Bettazzi che io ero andato a trovare a Ivrea.

Padre Balducci, in particolare, scrisse una bellissima e lunga lettera nella quale ricordò che aveva subito un processo e una condanna per aver preso le difese di Giuseppe Gozzini, obiettore di coscienza cattolico.

Un’altra lettera che mi colpì molto fu quella di padre Vincenzo Barbieri, segretario generale di Cooperazione Internazionale. Egli scrisse che il mio gesto non era stato un colpo di testa né un rifiuto di servire la comunità nazionale, ma l’affermazione che la patria si serve meglio in maniera nonviolenta invece di imparare a uccidere e che la pace si raggiunge disarmando l’avversario col farci vedere disarmati, incapaci di aggredire. Di questo io sono molto convinto e l’ho verificato in carcere e in tante altre occasioni: il miglior modo per combattere i nemici é comportarsi in modo da non avere nemici.

 

In una società in cui spesso ci viene raccontato che il modo per risolvere le cose è la violenza o la guerra, basti vedere la situazione internazionale, quanto è importante raccontare ai giovani la sua testimonianza e il suo impegno alla nonviolenza? 

Si sentono sempre più spesso notizie di atti di violenza tra adolescenti.

E’ certamente importante indicare ai giovani che ci sono altri valori, che non è necessario usare la violenza per affermare se stessi, che si ottengono migliori risultati usando la “forza” della nonviolenza.

La violenza genera altra violenza, le guerre generano altre guerre; non si può costruire la pace nel mondo se non la costruiamo innanzitutto tra noi, con i nostri fratelli, gli amici, i vicini.

 

Nel suo libro, e non potrebbe essere altrimenti, tratta il carcere. Quanto è importante sensibilizzare su questo tema vista la situazione drammatica delle carceri italiane?

Io ho avuto l’esperienza di un carcere militare, non civile.

Molto duro, anche se ne ho attenuato la durezza creando un clima comunitario con i compagni di camerata. E’ stata per me l’occasione per sperimentare e verificare la nonviolenza in tante occasioni durante la detenzione.

Comunque, il carcere non dovrebbe essere impostato in modo da disumanizzare i detenuti. Già è sufficiente come punizione il dover stare tra quattro mura, lontano dal mondo esterno; non è necessario frustrare tutte le possibilità di esprimersi.