Non soltanto gli animalisti, ma anche gli economisti, gli ecologisti e i nutrizionisti denunciano da tempo i problemi enormi creati dal consumo di carne e dagli allevamenti intensivi. Da vari punti d’osservazione e diverse specifiche competenze, spiegano che non possiamo più permetterci di abbattere foreste per far posto a pascoli, che aumenta in maniera vertiginosa e penosa il numero di contadini che rimane senza terra, che gli allevamenti e le mattanze contribuiscono al cambiamento climatico, che per produrre un chilo di carne occorrono oltre 15.000 litri di acqua (11.580 in Italia; magari in questo ci dimostriamo più “bravi”, o forse solo più tirchi), e che no, il pianeta non se lo può permettere. Pochi vogliono ascoltare, perché ascoltare davvero vorrebbe dire cambiare stile di vita o perlomeno alimentazione, cioè rinunciare alla carne. Sempre auspicando un innalzamento del livello di coscienza (perché di questo, in sostanza, si tratta), intanto, per vie sorprendenti, arrivano notizie di studi che, mettendo l’accento sul mondo vegetale, potrebbero in un futuro nemmeno troppo lontano aiutarci a sopravvivere, se come sembra le risorse si ridurranno ancora di più e il numero di abitanti della Terra sfiorerà i 10 miliardi nel 2050. Parliamo di agricoltura spaziale. Di sistemi biorigenerativi basati sul riciclo.
È appena uscito un libro documentatissimo e leggibile da tutti, nonostante gli ineludibili approfondimenti tecnico-scientifici. Scritto da Stefania De Pascale, agronoma, ordinaria al Dipartimento di Agraria al Federico II di Napoli, ricercatrice e divulgatrice (e anche architetta di giardini, parchi e paesaggio, il che per una persona innamorata delle piante non è strano), ha un titolo accattivante, Piantare patate su Marte. Il lungo viaggio dell’agricoltura (ed. Aboca), e un contenuto che cattura ancora di più. Scopriamo che l’urina per le colture era già usata in tempi antichi, che una certa specie di mosche è utilissima nell’agricoltura circolare, che nello spazio non si possono bere bibite gassate perché la mancanza di gravità impedisce alle bollicine di anidride carbonica di separarsi dai liquidi, che un vino rosso francese, un Bordeaux “invecchiato” per 438 giorni e 19 ore sulla ISS (Stazione Spaziale Internazionale che orbita intorno alla Terra a 400 km dalle nostre teste) è stato battuto all’asta per 1 milione di dollari, che dal 2015 nella stazione c’è anche una macchina del caffè, l’ISSpresso, costruita per funzionare in assenza di gravità. Ma queste sono soltanto curiosità. Quello che conta è cosa si stia facendo per consentire agli astronauti di compiere lunghi viaggi nello spazio senza portarsi dietro tonnellate di cibo ed ettolitri di acqua, e quanto tali esperimenti, che già sono a buon punto, serviranno anche per noi quaggiù, per una coltivazione senza sprechi, che riesca anzi a riciclare i prodotti di scarto.
Nello spazio si deve tener conto della scarsità di risorse, della microgravità, delle diverse forme di radiazioni, la mancanza di campi magnetici, dell’alta concentrazione di anidride carbonica (per citare solo gli elementi critici principali). E viene da pensare, non sbagliando, che se si riuscirà a coltivare a quelle difficili condizioni, applicare certe tecniche sulla Terra sarà una (quasi) passeggiata. Gli studi oggi vengono condotti utilizzando sia simulazioni quaggiù che esperimenti nello spazio, e in questo momento si sta esplorando la possibilità di coltivare, oltre agli ortaggi, cereali e addirittura piante da fiore. Importante: alcuni degli ortaggi prodotti sull’ISS sono stati già consumati dai membri dell’equipaggio.
Un’osservazione tristemente giusta, che l’autrice ripete all’inizio, a metà e anche alla fine del libro, è che del mondo vegetale sappiamo poco (a meno che non sia il nostro campo di studi), lo diamo per scontato, a malapena ci accorgiamo che esiste. Eppure le piante, in sistemi biogenerativi, sono in grado di fare merviglie… rigenerare l’aria assorbendo anidride carbonica ed emettendo ossigeno; purificare l’aria mediante la traspirazione, acqua pura che può essere recuperata attraverso la condensazione in appositi circuiti; produrre cibo fresco utilizzando parte dei prodotti di scarto dell’equipaggio e luce come fonte di energia; fornire, attraverso gli scarti residui, substrato utile agli organismi decompositori. E sulla Terra? Scrive De Pascale: «Tutta la vita sulla Terra è direttamente o indirettamente dipendente dalle piante. Prima di tutto, le piante sono i polmoni verdi della Terra, sottraggono anidride carbonica all’atmosfera e producono ossigeno che noi respiriamo; con la traspirazione svolgono un ruolo importantissimo nel ciclo dell’acqua; attraverso la simbiosi con alcuni batteri, le leguminose sono in grado di fissare l’azoto dall’atmosfera rendendolo disponibile per gli esseri viventi … Rappresentano la base della catena alimentare, ed esiste una miriade di specie di interesse alimentare per noi … hanno importanza nell’evoluzione del clima, del suolo e del paesaggio. Si deve al mondo vegetale la profonda modifica dell’ambiente terrestre che ha permesso l’evoluzione di sistemi biologici sempre più complessi, fino ad arrivare agli esseri umani. E oggi sempre alle piante si deve la protezione dell’ambiente in cui viviamo… e la produzione di principii attivi, utilizzati diffusamente in medicina … e gli usi nell’industria tessile, in edilizia, in falegnameria…». In una situazione a rischio come quella terrestre, è dunque dalle piante e dal loro ruolo che dobbiamo (e possiamo) cercare soluzioni. Per sfamare tutti, intanto. È poco?
È necessario proteggere la biodiversità (per avere una ampio pool genetico al quale attingere per affrontare il cambiamento climatico), imparare a utilizzare molte più piante di quelle che già usiamo (ci sono circa 50 mila piante commestibili, ma è stato calcolato che solo 200 dominano la produzione), creare ambienti in cui le piante potranno crescere rapidamente in volumi limitati, sperimentare sistemi di coltivazione già in uso nello spazio come l’idroponica (le radici sono immerse in una soluzione nutritiva – nei giardini pensili di Babilonia già si faceva -) e l’aeroponica (le piante sono sospese in aria grazie a supporti e le radici vengono nebulizzate con la soluzione nutritiva), servirci di sistemi di controllo computerizzati.
Nel libro si dà conto di tante strutture di coltivazione, di progetti diversi che già si stanno realizzando. Questa sembra essere la strada. E, per tornare alle patate su Marte: «I primi coloni marziani dovranno essere qualcosa di ibrido tra astronauti e agronomi, oltre ad essere principalmente vegetariani», scrive De Pascale. Viste premesse, analisi e conclusioni… più probabilmente vegani, no?