Grazie al alcuni amici sono venuto a conoscenza del memorabile viaggio in bici compito dal giovane Alessandro Cuneo, che in circa due mesi ha percorso qualcosa come 6.800 km attraverso diversi paesi lungo la rotta della Via della Seta. Decido allora di cercarlo e farmi raccontare la sua avventura. Di seguito l’intervista.

Alessandro raccontaci in breve chi sei: la tua famiglia, dove sei cresciuto, cosa hai studiato?

Ciao a tutti e tutte! Mi chiamo Alessandro Cuneo e sono un ragazzo di 24 anni. Sono nato e cresciuto a Milano, città in cui sono rimasto fino al 2019 quando, dopo aver ottenuto la maturità scientifica, sono partito come volontario per un anno sabbatico viaggiando tra il Sud America e l’Africa. Nel 2020, terminata questa bellissima esperienza di viaggio e di vita, ho iniziato il corso in Diplomatic and International Sciences presso l’università di Bologna. Nel 2023, al termine della laurea triennale, ho iniziato la magistrale in Sviluppo Globale e Cooperazione Internazionale, sempre all’università di Bologna.

Nel gennaio 2023, dopo un periodo di scambio universitario in Costa Rica, mentre mi trovavo nella bellissima Isla del Sol in Bolivia, durante la traversata dell’America Latina via terra intrapresa dopo aver concluso il percorso con Erasmus in Costa Rica, ho ricevuto dall’università di Bologna la conferma che ero stato preso per un altro scambio universitario, questa volta in India. Così gennaio del 2024 sono partito per l’India, dove ho trascorso un semestre presso la Shiv Nadar University di Nuova Delhi.

L’inizio era stato un pò complesso, visto che cinque giorni prima di partire, quando ancora ero a Bologna, ero caduto dalla bici e mi ero rotto il braccio sinistro. Nonostante ciò l’esperienza in India è stata veramente molto interessante: quasi ogni fine settimana prendevo treni o bus notturni per raggiungere alcune città e luoghi di interesse culturale o naturale, nel centro e nord del Paese. L’India e la sua cultura tanto varia, colorata e forte, mi hanno totalmente conquistato, insegnato e fatto crescere umanamente.

E arriviamo al momento della decisione di questo viaggio: è maturata nel tempo o è stata una vampata?

Fin da quando ho scoperto che sarei andato a studiare in India mi era venuta l’idea di tornare in Italia via terra. Inizialmente avevo pensato di tornare con i mezzi pubblici o con l’autostop, come avevo fatto in America Latina l’anno prima. Questo perchè a causa del percorso parecchio insidioso, della mia scarsa preparazione fisica e della mancanza di qualunque base di bike mechanics, credevo che farlo in bici sarebbe stato un azzardo.

Ma poi ho cominciato a pensare “se non lo faccio ora in bici, quando lo farò?”. Avevo abbastanza risorse economiche (l’anno prima avevo lavorato un mese come bracciante agricolo in Toscana raccogliendo e pulendo cipolle per dieci ore al giorno insieme a due splendidi ragazzi del Gambia, e avevo fatto la vendemmia in Francia) e avevo due mesi e mezzo liberi. Sarebbe stato un peccato lasciarsi scappare un’opportunità del genere. Quindi, messe da parte le preoccupazioni iniziali, mi sono messo a organizzare il viaggio.

Come ti sei preparato? C’era bisogno del visto nei Paesi dove sei passato?

La preparazione, come mio solito, è stata la più semplice possibile. Ho scelto una città da cui partire, Almaty (Kazakistan) e un percorso da seguire a grandi linee, che si sarebbe potuto modificare e adattare alle mie esigenze durante il viaggio. Utilizzando come strumento il sito “Viaggiare Sicuri” della Farnesina, ho scoperto che avevo bisogno soltanto di un visto, quello azero, e di una registrazione per entrare in Pamir (Tajikistan).

Ho deciso di partire dal Kazakistan e non dall’India per evitare il conflitto latente che in quei mesi si stava sviluppando in Medio Oriente e che avrebbe potuto interrompere il mio viaggio a metà del tragitto. Un altro desiderio era quello di percorrere la vecchia Via della Seta e, in particolare, la bellissima e selvaggia Pamir Highway, la seconda strada internazionale più alta del mondo.

Son partito per l’India con una valigia che per il 70% conteneva equipaggiamento per il viaggio in bici (borse, vestiti, attrezzature) e per il restante 30% qualche vestito vecchio che, prima di partire, ho regalato. Visto il mio braccio rotto e un po’ di insicurezza avevo deciso di non portare la mia bici: arrivato in India mi sarei arrangiato in qualche modo. Così dopo un mese e mezzo di negoziazioni, la Shiv Nadar University ha deciso di supportare l’acquisto di una bici per il viaggio: una FireFox Pirate II.

Nel video si vedono immagini bellissime, viene però da pensare che ogni tanto ci siano dei tratti pesanti (uscite dalle città, zone industriali), sei sempre riuscito a stare su strade secondarie?

Ho sempre cercato di evitare strade troppo trafficate e grandi città ma, soprattutto nei Balcani e in Turchia, non è sempre stato possibile. Per questo motivo cercavo di pedalare la mattina presto, lontano dalle ore di punta.

Che cosa ti aspettavi che non hai trovato e viceversa?

Mi aspettavo di trovare parecchia diffidenza, soprattutto nelle aree più isolate del Pamir e dell’Asia Centrale, invece ho trovato una grande accoglienza e ospitalità. Nonostante le persone vivano con molto poco, non appena mi vedevano in difficoltà cercavano di aiutarmi, offrendomi un chay (un tè) o un posto dove montare la mia tenda. Durante tutto il viaggio, nonostante fossi solo e mi accampassi con la tenda nei boschi o (a volte) vicino a delle aree di sosta, non ho mai avuto nessun problema dal punto di vista della sicurezza, che era una delle mie più grandi preoccupazioni.

Come incontravi le persone, quali lingue hai usato? Ti è capitato di dormire in case o alberghetti per riposare, per lavare le cose…?

Nei 57 giorni di viaggio ho dormito solo 4 notti in Guest House, le restanti 53 in tenda facendo campeggio libero (wild camping) oppure come ospite delle persone che incontravo lungo la strada. Nonostante dormissi in tenda, ogni sera utilizzavo il mio semplice doccino portatile per lavarmi. Facevo una divisione maniacale tra i “vestiti per la bici”, che difficilmente riuscivo a lavare e che erano parecchio sporchi, e i “vestiti per la notte”, che invece erano puliti.

Con le persone che incontravo, nel 99% dei casi per comunicare utilizzato i gesti. Ho trovato pochissime persone che parlavano inglese. Il sorriso era l’unico strumento che avevo per combattere la diffidenza. Per la parte in Asia Centrale avevo imparato quattro parole fondamentali in russo: ciao, grazie, acqua e tenda. Il minimo necessario per sopravvivere.

Descrivici i passaggi più difficili e i momenti in cui hai detto: basta, non ce la faccio più.

Probabilmente la parte più bella e difficile di questo viaggio è stata l’entrata in Pamir e la traversata del Ak-Baital pass a 4655 mt di altitudine. Davanti a una natura così immensa e forte mi sono sentito estremamente fragile. Mi sono trovato da solo a percorrere una piccola strada sterrata piena di buche lungo una valle costeggiata da distese di montagne innevate che superavano i 6000 mt. Un panorama che mi ha lasciato senza parole.

Durante questo viaggio mi sono riscoperto una persona parecchio positiva. Più la situazione era difficile e di disagio, più mi sentivo vivo perché dovevo assolutamente cercare di trovare una soluzione per risolvere i problemi che si presentavano. Nonostante io sia parecchio lamentoso non ho mai detto: “Basta, non ce la faccio più…”, ho stretto i denti e pedalato più forte. Anche perchè non ero stato obbligato da nessuno a tornare a casa in bicicletta… Anzi, mi sentivo estremamente privilegiato e fortunato a poterlo fare.

Un altro momento difficile è stato in Kyrgyzstan, quando ho dovuto fare 45 km di discesa da un passo alto 3200 mt sotto una pioggia battente, con tanti camion e senza potermi fermare perché non c’erano posti all’asciutto.

L’ultima parte del viaggio, quella nei Balcani, è stata estremamente faticosa per il grande caldo, il traffico e la difficoltà nel trovare posti tranquilli in cui montare la tenda di notte. Dovevo aspettare notte inoltrata prima di montare la tenda per non essere visto, e smontare tutto all’alba.

Problemi coi cani?

In Azerbajan e Turchia ho avuto veramente tanti problemi con i cani che, non appena mi vedevano passare, cercavano di inseguirmi per mordermi. Una volta cercando di scappare sono anche caduto dalla bici. La strategia che usavo era fermarmi di colpo, utilizzare la bici per proteggermi e urlare verso di loro. In Azerbajan, dopo i primi giorni in cui ho subito 4-5 attacchi al giorno, mi sono portato dietro dei sassolini da tirare. Il solo movimento del braccio li spaventava. Lo spray avrebbe potuto essere utile, ma in molti Paesi è proibito, soprattutto dell’Asia Centrale: se ti trovano con lo spray rischi parecchio…

Nel video affronti lunghe salite o discese che poi ti tocca rifare per recuperare la videocamera, ci vuole una forza enorme per ripetere anche solo un breve pezzo di strada due volte…

Esattamente! Molte volte quando tornavo indietro a riprendere la fotocamera mi chiedevo che diamine stessi facendo. Però, visto che uno degli obiettivi era quello di raccontare il viaggio attraverso un piccolo documentario, continuavo a farlo, cercando di mettere a tacere la vocina interiore che mi diceva di smetterla.

Hai incrociato “migranti” in cammino?

Nonostante io abbia percorso la famosa “rotta balcanica” non ho trovato molti migranti. Una scena però mi è rimasta impressa, quando stavo per raggiungere la frontiera tra Grecia e Albania: ho trovato un ragazzo, presumibilmente indiano o del Bangladesh, che vedendomi scendere lungo una stradina di campagna mi ha fermato per chiedermi dell’acqua e per fare una chiamata. Invece in Turchia, fuori dalle grandi città, ho trovato diversi campi per i rifugiati in cui vivono grandi comunità di Siriani.

Cosa hai appreso, cosa rifaresti?

In questo viaggio ho imparato molto! A fidarmi di più degli altri: ho avuto l’ennesima conferma che il mondo è pieno di persone buone e che chi ha meno è più propenso ad aiutare. Ho imparato ad adattarmi a quasi ogni situazione, a essere positivo anche nei momenti più difficili, ad apprezzare la solitudine e la compagnia, a sorridere di più e ad apprezzare gli imprevisti. Mi sono reso conto per l’ennesima volta di quanto io sia fortunato a poter fare tutte queste bellissime esperienze e, più semplicemente, a poter studiare.

Ansie dei tuoi genitori?

I miei genitori, come per ogni mio viaggio, erano estremamente preoccupati. Un mese prima della mia partenza c’era stato un attacco terroristico a Mosca per mano di alcuni terroristi tajiki e nel mio percorso verso casa avrei dovuto attraversare l’intero Tajikistan. Per due settimane hanno cercato in ogni modo di farmi desistere e di farmi cambiare rotta. Sono riuscito a tranquillizzarli grazie ai racconti di Matteo, un viaggiatore e scrittore di Genova che aveva attraversato in bus e in autostop queste terre qualche mese prima. Inoltre avevo un piccolo dispositivo satellitare per contattarli in caso di problemi. Credo che non sia per nulla facile avere un figlio come me…

Per concludere, cosa avevi fatto in quel famoso “anno sabbatico”, a 19 anni?

In America Latina avevo lavorato per cinque mesi in un piccolissimo paesino delle Ande Peruviane, in cui avevo fatto un po’ di tutto (cucinavo e servivo alla mensa locale, davo lezioni di calcio e cucina ai bambini della fondazione e, ogni mercoledì, vendevo pizza al mercato locale per auto sostenermi). Poi, in Cile, ad Antofagasta, ho lavorato in un centro di riciclaggio come manutentore; infine, in Argentina, a La Plata (50 km da Buenos Aires), ho fatto il receptionist in un ostello. Poco prima del COVID ho trascorso due mesi in Africa (Uganda e Tanzania) dando lezioni d’inglese ai ragazzi delle comunità e portando avanti una campagna di crowdfunding per la costruzione di un asilo.

A presto Alessandro.