All’ascesa al potere di Mikhail Gorbaciov nel 1985 seguì una vera rivoluzione nella politica estera sovietica.

Per la prima volta l’Europa occidentale -organizzata nella Comunità Economica Europea- veniva riconosciuta come un soggetto di politica internazionale, autonomo dagli Stati Uniti e indispensabile all’URSS per preservare il suo status di grande potenza.

In base alla nuova visione gorbacioviana, la cooperazione tra Unione Sovietica ed Europa era raccontata come l’unico strumento in grado di preservare la pace nel Vecchio Continente, evitando la paventata catastrofe nucleare.

Paesi come l’Italia, la Francia e la Germania vedevano nella diffusione dell’arma nucleare la più grande minaccia alla propria esistenza; e all’esistenza di quel mondo, pacifico e prosperoso, creato sulle premesse del secondo dopo-guerra.

Spinti da questa convinzione, i politici europei accolsero le politiche riformiste della Perestroika cercando di evitare l’improvviso crollo della Federazione sovietica.

Dopo il 1991, la gran parte dell’arsenale atomico sovietico passò sotto il controllo della neonata Federazione Russa.
Oltre alle armi, la Russia post-comunista ereditò anche alcune tattiche di politica estera che caratterizzarono gli ultimi anni dell’URSS.

Ad esempio, il presidente Boris Yeltsin riconobbe subito l’importanza della cooperazione con i paesi dell’Europa occidentale.
La percezione del mondo nei confronti di Mosca era cambiata profondamente.

Per le leadership europee la Russia non rappresentava più quell’ ”impero del male” forgiato da decenni di stalinismo, ma un paese debole in cui gran parte della popolazione viveva in uno stato di povertà assoluta.

Gli anni di Putin

Divenuto Presidente nel 1999, Vladimir Putin fece tesoro dell’esperienza accumulata negli anni precedenti, vissuti tra Dresda e San Pietroburgo.

Dalle vicende di Yeltsin e Gorbaciov egli apprese una grande lezione: per sfruttare la minaccia nucleare a proprio favore nei rapporti con l’Europa occidentale la Russia doveva presentarsi come un paese forte e belligerante, in grado di dominare l’arena internazionale come l’URSS aveva fatto per decenni.

Nel 2008, l’intervento in Georgia segnò il ritorno delle politiche espansioniste russe, mostrando per la prima volta il carattere revisionista e belligerante di Vladimir Putin.

In questo periodo, i rapporti tra la Russia e l’occidente si deteriorano, e le opinioni pubbliche europee tornarono ad aver paura dell’atteggiamento di Mosca.

In questo senso, i punti di non ritorno furono l’annessione della Crimea del febbraio 2014 e l’inizio delle ostilità nelle regioni di Donbass e Lugansk, a dimostrazione della disponibilità russa nel condurre una guerra fin dentro i confini dell’Europa.

Da questo momento in poi, consapevole di aver riportato la paura nel Vecchio continente, Putin iniziò giocare le sue carte.
Ad ogni passo di un paese europeo percepito come potenzialmente ostile, il Cremlino reagì brandendo l’utilizzo delle armi atomiche, facendo della minaccia nucleare uno strumento di politica estera.

Negli ultimi anni questo fenomeno si è progressivamente intensificato, soprattutto dopo l’invasione russa dell’Ucraina.

(il testo integrale dell’articolo è leggibile qui https://www.eastjournal.net/archives/138233)