Il libro “Nazione e compassione. Esiste un nazionalismo buono?” di Teresa Forcades e Demetrio Velasco è forse una rarità in questi tempi bui, settari, polarizzanti e disorientanti. Edito nel 2017 da Castelvecchi, questo piccolo pamphlet di appena 57 pagine è passato in sordina in questi anni ma è più attuale che mai ed offre veramente uno spunto alternativo alle narrazioni dominanti contemporanee sulla “questione nazionale”.
“Può esistere un nazionalismo buono, aperto e solidale rispetto ad un nazionalismo cattivo, xenofobo e sciovinista? Nazionalismo e violenza, indipendentismo e chiusura sono veramente concetti inseparabili?” si domanda Teresa Forcades, teologa femminista catalana e fondatrice del movimento politico anticapitalista e indipendentista catalano di sinistra Proces Constituent.
Tutto parte proprio dall’opera del politologo marxista Benedict Anderson “Comunità immaginate” sull’espandersi del nazionalismo, che Forcades ha studiato con il filosofo indiano Rajeev Bhargava. Le nazioni non emergono come fonte di conflitto, ma bensì come alternativa agli imperi. A differenza degli imperi che si considerano superiori e dotati del diritto di conquistare gli altri popoli, le nazioni sono una forma politica post-imperiale volta al riconoscimento della pluralità. A differenza dell’impero che si espande per imposizione mediante violenza economica e militare, la nazione è un’entità politica, culturale, linguistica e sociale libera che si percepisce tale e che si autodetermina, spesso con una lotta per l’indipendenza.
Per quanto l’ideale sia impeccabile, spesso è fallibile proprio quando le nazioni – oggi come oggi – non si comportano come tali e sviluppano un ipertrofico nazionalismo con “tic imperialisti” che rifiutano l’autodeterminazione dei popoli che convivono sul loro territorio. È proprio la riflessione sulla “questione nazionale” che distingue il “nazionalismo di sinistra” dal “nazionalismo di destra”: si può immaginare una nazione aperta che rifiuti qualsiasi desiderio di dominio sulle altre, che rifiuti i nazionalismi escludenti, le manie cosmopolite e i tratti imperialistici di entrambi? Si può pensare a un mondo di nazioni distinte e sorelle nella pluralità?
Proprio perché le nazioni sono “comunità immaginate” che si percepiscono come tali, l’identità nazionale è una volontà politica. Non dovrebbe basarsi solo sul principio di autodeterminazione (che sfocia spesso in becere retoriche), ma chiedersi a chi si vuole lasciare il compito di immaginare il nostro essere collettivo, dato che l’individuo da solo non è capace di difendere le sue libertà politiche.
La democrazia è l’articolazione libera dell’individuo nelle società fondate sull’equilibrio tra le necessità individuali, che riguardano strettamente e intimamente il soggetto, e le necessità collettive, che riguardano la società. La democrazia esiste laddove esiste il “popolo”, termine collettivo che è rappresentativo di questo equilibrio.
A partire da questo spunto, Forcades associa “nazione” a “compassione”, perché solo uno sguardo compassionevole può permettere di “amare l’imperfezione” e quindi di amare il proprio Paese e la propria terra senza il bisogno di sentirla superiore; una nazione che lotta per il diritto all’autodeterminazione e che lavora per creare consapevolezza nel suo essere collettivo; un nazionalismo che concepisca la pluralità come “bene etico” e che rifiuti qualsiasi desiderio di dominio.
Il “nazionalismo buono” vuole difendere “l’unità nella diversità” sia dall’uniformità dei nazionalismi sciovinisti e xenofobi ipertroficamente chiusi su se stessi, sia dall’uniformità la galoppante avanzata della globalizzazione neoliberista e il suo cosmopolitismo a tutti i costi calato dall’altro. Il “nazionalismo buono” è una valida alternativa all’uniformità proprio laddove spesso i localismi, gli etnocentrismi e gli sciovinismi sono una malsana reazione all’omologazione della globalizzazione.
Il “nazionalismo buono” si solleva proprio contro l’azione uniformante per preservare la diversità umana nelle particolarità locali, nelle tradizioni, nei costumi, nelle lingue, nei dialetti, negli idiomi locali che rendono testimonianza di una determinata esperienza storica, nella consapevolezza che nessuna di esse è migliore rispetto alle altre o fissa o eterna. Una resistenza che ci serve per preservare la ricchezza umana prima che ogni popolo inizi a parlare solo inglese o solo cinese.
In questo libro, incalzata dal suo interlocutore, il filosofo spagnolo Demetrio Velasco, Forcades esprime le ragioni del suo nazionalismo indipendentista catalano. A suo parere c’è sempre stato un “nazionalismo di sinistra” (Rivoluzione cubana, Rivoluzione Sandinista, Rivoluzione zapatista in Chiapas, Rivoluzione Bolivariana in Venezuela, “identità plurinazionale” della Bolivia con Evo Morales, indipendentismo catalano, indipendentismo sardo, indipendentismo basco, i movimenti di liberazione nazionali con Arafat in Palestina, l’esercizio della sovranità e lo stesso diritto dei popoli ad autodeterminarsi) che sostiene come il concetto di “nazione” non sia escludente, separatista, xenofobo e razzista, ma sia contro qualunque uniformità.