Intervista di Stefano Seppecher a John Mpaliza
Portavoce della Rete “Insieme per la Pace in Congo” (Home – Insieme per la pace in Congo), John Mpaliza è un attivista italo- congolese che da oltre 15 anni organizza instancabilmente marce e iniziative di sensibilizzazione in Italia e in Europa per fare luce sulla drammatica situazione nel suo Paese di nascita: la Repubblica Democratica del Congo. Questo enorme Paese al centro del continente africano, da oltre cento milioni di abitanti e un’estensione pari a otto volte l’Italia, è al centro di un sanguinoso conflitto per procura. Alcuni Paesi confinanti, con il supporto delle potenze occidentali, anglosassoni in primis, occupano e saccheggiano i suoi territori dove si concentrano il coltan e il cobalto, minerali cruciali per lo sviluppo e il funzionamento di tutte le moderne tecnologie che ci circondano: dai computer agli smartphone, passando per fibra ottica e auto elettriche. Vittima della sua stessa ricchezza, il Congo oggi è un gigante ferito, un paese “ricco da morire”. Dal 12 al 19 ottobre, in Italia e nel resto del mondo, ci sarà l’occasione di discutere e far conoscere di più il dramma che sta vivendo questo Paese con la Congo Week, un’iniziativa globale finalizzata all’informazione e alla sensibilizzazione.
John, per iniziare, potresti raccontarci come nasce e in cosa consiste la Congo Week?
La Congo Week è un’iniziativa promossa per la prima volta nell’ottobre 2009 a Washington D.C. da Friends of the Congo, un’associazione della diaspora congolese negli Stati Uniti. L’obiettivo principale che si pone è quello di informare e sensibilizzare quante più persone possibili sul dramma che il popolo congolese vive ormai da molti anni. Il suo slogan è “Breaking the Silence”, ovvero “Rompere il Silenzio”. Infatti, il perdurante stato di crisi politica e umanitaria che attraversa la Repubblica Democratica del Congo non riceve l’attenzione mediatica che gli spetterebbe in virtù delle sue gigantesche proporzioni. Il Paese è vittima di un conflitto militare dal 1996 e ad oggi conta più di dieci milioni di morti, numeri inferiori soltanto alla Seconda Guerra Mondiale, eppure non se ne parla praticamente mai.
Da quanto tempo, invece, si organizza la Congo Week in Italia?
In Italia la Congo Week si organizza tutti gli anni dal 2013, con l’eccezione del 2020 e del 2021 a causa del Covid. Il motto dell’edizione italiana di quest’anno è “Informare per Trasformare”. Con il coinvolgimento attivo della cittadinanza, delle istituzioni e delle associazioni del terzo settore, cerchiamo di rendere informata una fetta quanto più ampia possibile di opinione pubblica sui drammi che sta vivendo il Congo e su come tutto questo ci riguardi. L’obiettivo finale è l’elaborazione di proposte e ulteriori iniziative che possano aiutare a far luce sulla situazione e a non spegnere i riflettori. Bisogna che la gente parli di questa crisi.
In che giorni si svolgerà la Congo Week quest’anno e che incontri prevede?
La settimana sarà quella dal 12 al 19 ottobre e coinvolgerà un totale di nove città italiane (nella locandina non ci sono Massa Carrara, Padova e Guastalla perché si sono aggiunte dopo). Un fatto davvero importante dell’edizione di quest’anno sarà l’intervento a Rovereto, a Verona e Mantova di tre personalità congolesi che vengono apposta per l’occasione. Si tratterà nello specifico del Dr. Joseph Kakisingi, medico, direttore dell’ospedale Saint-Vincent di Bukavu, di Madame Linda Bauma, attivista, rappresentante di Bold, che lotta nel Nord-Kivu per la tutela di donne vittime di stupri usati come arma di guerra e di Sébastien Muyengo Mulombe, vescovo di Uvira. Una cosa che tengo inoltre a sottolineare è la ricerca costante del coinvolgimento delle generazioni più giovani. Parteciperò, infatti, anche a diversi incontri nelle scuole, come ad esempio in alcune di Massa Carrara, per cercare di far conoscere la questione congolese anche ai più piccoli.
Perché il Congo è vittima di un conflitto così lungo e sanguinoso?
Il Congo è stato spesso definito un Paese “ricco da morire”. Lì, infatti, si concentra una quota enorme delle riserve mondiali dei minerali coltan e cobalto. Il primo è essenziale per la produzione e il funzionamento di tutti i moderni dispositivi elettronici, dai computer ai tablet fino agli smartphone di ultima generazione. Il secondo, invece, è necessario per il funzionamento delle batterie delle nuove auto elettriche, fondamentali per la riuscita della cosiddetta transizione energetica. Purtroppo, proprio a causa della presenza di questi minerali così preziosi, il Congo è vittima di un conflitto che va avanti dal 1996 e di cui non si intravede la fine. Tramite la guerra, attori esterni, incluse le potenze occidentali, occupano e saccheggiano il suo territorio e le sue ricchezze.
Cosa accadde esattamente nel 1996?
Nel 1996 l’allora Zaire fu occupato e saccheggiato da parte delle AEFL (Allenza delle Forze Democratiche per la Liberazione del Congo-Zaire), un’alleanza composta da Uganda, Ruanda e Burundi, le quali erano a loro volta sostenute da potenze anglosassoni. Ad oggi, la situazione è rimasta pressappoco inalterata, pur con attori diversi. C’è l’AFC (Alleanza per il Fiume del Congo), guidata da Corneille Yobeluo Nangaa, ex presidente della commissione indipendente per l’elezione, a cui poi vanno aggiunti il Movimento M-23, composto da miliziani tutsi Ruandesi; ci sono poi circa 4.000 militari regolari dell’esercito ruandese e infine un buon numero di militari ugandesi invitati in passato dallo stesso presidente della Repubblica Democratica del Congo, Felix Tshishekedi. A mio avviso, però, la cosa più grave consiste proprio nell’aperta occupazione di tutti i territori nel nord-est del Paese, proprio lì dove si concentrano le riserve di coltan congolese. Se in passato, quindi, il coltan usciva sottotraccia, oggi non c’è più nemmeno una frontiera che possa sancire l’irregolarità del passaggio. Il coltan viene estratto, preso con la forza e trasportato direttamente in Ruanda, senza che tutto questo venga impedito o ostacolato.
Il Ruanda gioca quindi un ruolo particolarmente importante…
Dal 2014 il Ruanda, secondo un rapporto dell’Agenzia Ecofin (En 2023, le Rwanda s’est classé premier exportateur mondial de coltan pour la 5e fois en 10 ans (agenceecofin.com), è stato il primo esportatore di coltan per ben cinque volte, senza tuttavia averne sul proprio territorio. Senza dimenticare poi che in quei territori nel nord – est del Congo, lì dove morì l’ambasciatore Attanasio, ci sono altri minerali estremamente preziosi come l’oro e il tungsteno che vengono estratti ed esportati illegalmente. La mia paura è che questi gruppi, statuali e no, imponendo la propria amministrazione su quei territori, stiano cercando di ufficializzare quella che, di fatto, è già una situazione di pieno controllo.
Cosa denunciate voi della Rete “Insieme per la Pace e il Congo” ai governi occidentali e a quello congolese?
Il governo congolese purtroppo sembra non avere la solidità e la volontà necessarie per provare a risolvere questa situazione. I nostri governi qui in Occidente, nel frattempo, sostengono i Paesi che stanno occupando il Congo. Ne è una testimonianza chiara, purtroppo, l’accordo firmato lo scorso febbraio tra l’Unione Europea e il Ruanda, che per noi è inaccettabile (qui la nostra petizione: https://www.change.org/p/no-allo-scandaloso-accordo-tra-ue-e-rwanda-sui-minerali-del-congo). L’accordo riguarda proprio l’esportazione di quei minerali che il Ruanda prende illegalmente dal Congo tramite l’occupazione dei suoi territori. L’Unione Europea poco dopo, stante l’attuale difficoltà a reperire materie prime critiche a livello globale, ha adottato un regolamento che ne riguarda proprio l’approvvigionamento (https://eurlex.europa.eu/legalcontent/IT/ALL/?uri=CELEX:32024R1252).
Un risultato importante raggiunto anche grazie alla tua opera di attivismo era stato proprio un regolamento europeo sulla tracciabilità dei minerali, giusto?
Purtroppo, su quel versante abbiamo ottenuto dei risultati solo fino a un certo punto. Nel 2015 il Parlamento Europeo era arrivato a proporre un regolamento per la tracciabilità obbligatoria dei minerali. Il Consiglio dell’Unione Europea però esaminò e stravolse quel regolamento nel 2017. Ci fu poi una lunga conciliazione che coinvolse anche la società civile e che però non portò ad un buon compromesso. Il regolamento, inoltre, è entrato in vigore solo nel 2021, contribuendo con questo lungo ritardo ad aggravare ulteriormente una situazione già grave. Noi siamo indignati dal fatto che proprio l’Europa dei diritti faccia accordi con un Paese il cui leader è stato eletto con il 99% delle preferenze e che è responsabile dell’aggressione e occupazione di un altro paese. Aggiungo che a luglio di quest’anno, inoltre, proprio l’Italia ha stretto un accordo con il Ruanda in materia di transizione energetica nell’ambito del Piano Mattei e che prevede finanziamenti per 50 milioni di euro. Io con la Rete Insieme per la Pace per il Congo denuncio questo accordo, così come quelli del 19 febbraio. Sono accordi che non tengono conto della gravità della situazione nel Congo e, colpevolmente, la peggiorano. L’Organizzazione Internazionale dei Migranti (OIM) ha dichiarato che in Congo in questo momento ci sono sette milioni di profughi interni e questi ultimi due anni di conflitto hanno portato a enormi concentrazioni di persone attorno alla città di Goma, che non respira più.
A fronte di un Occidente che gira sempre la testa dall’altro lato e vede i fatti solo quando non può proprio più fare altrimenti, i casi di Ucraina e Gaza insegnano in tal senso, non credi che la cronicizzazione del conflitto in Congo possa portare un giorno ad uno scenario talmente grave da richiedere un impegno molto più massivo e operoso dell’Occidente? Perché l’Occidente non impara dai propri errori e persiste nell’ignorare determinate realtà?
Semplicemente perché c’è una questione economica e di interessi che prevarica i diritti dei congolesi e degli africani. Se fosse da qualche altra parte forse avremmo già fatto qualcosa. Anche le Nazioni Unite, mi dispiace dirlo, sono impotenti, come lo sono a Gaza e in Ucraina. Ma le potenze occidentali, Unione Europea in primis, fanno di tutto per garantirsi un accesso alle miniere dove vengono sfruttati in condizioni disumane centinaia di migliaia di bambini. Io non so se si arriverà ad una situazione simile a quella di Gaza o dell’Ucraina per cui sorgerà una forte consapevolezza e si scenderà in piazza. La distanza geografica non aiuta, nonostante le fortissime connessioni tra il Congo e l’Occidente. Di nuovo, i minerali che ci permettono di usare i telefoni e i computer. Noi comunque non ci stanchiamo, continuiamo a parlare nella speranza di rompere il silenzio. Siamo convinti che in presenza di un numero adeguato di persone consapevoli del problema le cose potranno cambiare. Al tempo stesso, però, servirà soprattutto un cambio di passo nella governance nei Paesi africani e nelle rispettive classi dirigenti in un’ottica panafricanista. Non si può parlare del Congo e dei suoi problemi senza parlare di Africa nel suo insieme.
Foto di Stefano Stranges