Continuiamo a raccontare la storia di Suliman e Fatima e della loro lunga fuga da Sudan ed Etiopia. Ecco i link agli articoli precedenti:
https://www.pressenza.com/it/2024/07/storia-di-suliman-e-fatima-in-fuga-da-sudan-ed-etiopia/
https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-e-fatima-di-nuovo-in-sudan-ma-solo-di-passaggio/
https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-fatima-e-la-guerra-infinita-in-sudan/
A Port Sudan la situazione climatica da tre giorni è migliorata, mi dice Suliman nella telefonata di stamattina presto e anche la temperatura è scesa: è arrivata a 42, ma anche a 38 gradi: “40 è come 10 in Italia,” specifica, per rendere l’idea. Lui e la moglie Fatima sono sempre in attesa del passaporto di lei, ormai dovrebbe trattarsi di pochi giorni, probabilmente sarà pronto domenica (sia venerdì che sabato l’ufficio dell’Ambasciata è chiuso).
“Aspettiamo il passaporto e andiamo in Egitto” dice. E poi subito dopo: “Ma adesso ho sentito che NON danno il visto”. Penso: ogni piccola tappa raggiunta apre nuove incertezze rispetto al successivo passo da fare. Mi dice poi che i sudanesi presenti al momento in Egitto sono arrivati a 5 milioni. Il cibo scarseggia, i generi alimentari al mercato sono molto cari. Poi specifica che non sono tutti profughi disperati: più della metà di questi sudanesi (circa 4 milioni di persone – specifica) sono andati via per proteggere i loro soldi accumulati illecitamente, insomma “rubati”. Questi soggetti hanno riparato in Egitto e in Turchia. Chiedo se il governo egiziano non è contento che arrivino profughi ricchi e lui risponde: ” Sì, contento, ma ora dice ‘basta’ “. E tornando a sé aggiunge: “Però noi andiamo, anche senza visto. Qui è molto difficile”. Com’è tutto fragile e incerto; sembra che l’unica spinta forte sia quella di lasciare il posto in cui si sta e del quale si sono ben conosciuti i disagi (parola che sa di eufemismo per il solo fatto di contenere la parola “agi”). Andranno in tanti all’Ambasciata d’Egitto (“Non solo noi”) a chiedere il visto, in tanti tutti insieme e “dormiamo anche davanti”.
C’è gente, fra loro, che sta molto male – racconta – fra cui bambini. Saranno sottoposti a una Commissione sudanese-egiziana per verificare la situazione di salute. Ai ragazzi “senza famiglia” (alias ‘giovani’) non verrà dato alcun visto: se hai meno di 40 anni devi andare militare. (“I militari -dice Suliman- anche quelli per soldi- scappati”). Per questo il loro nipote è rimasto al campo in Etiopia anziché seguire gli zii in questo incerto ma speriamo salvifico percorso verso una diversa uscita dal Sudan. Mi aggiorna sul nipote, Nasraedin: insieme ad altri ha lasciato il campo di Kumer (sempre più pericoloso per le aggressioni dei Janjawed e loro affini). Si sono diretti verso il confine sudanese fermandosi al campo di Istet, a soli 30 Km dal Sudan. E qui Suliman mi precisa che una posizione così ravvicinata al Paese da cui sei fuggito è contro la Convenzione di Ginevra del 1951: si richiede infatti un minimo di 50 Km di distanza. Chiedo di lui: cosa fa, come vive. Mi dice che suo padre a giugno aveva “mandato qualcosa” e forse sta ancora centellinando quella somma, ma poi aggiunge che i ragazzi dentro il campo fanno qualche lavoro, magari trasportano le vettovaglie o l’acqua e ricevono qualcosa in cambio, immagino direttamente in cibo o simili.
E torniamo a parlare di Port Sudan: un aspetto che incentiva fortemente ad andarsene è l’acqua. Si beve acqua salata: a quanto capisco si tratta di acqua di mare mal depurata. “Quella fa male!” dico in un moto spontaneo, poi penso che certo lo sanno bene anche loro e lo stanno provando su loro stessi. Naturalmente l’acqua che vendono al mercato, quella minerale, è molto cara. Penso al nostro referendum (inutilmente vinto!) sull’acqua pubblica, a quello che decine di anni fa già si diceva: l’acqua diventerà nel mondo un bene più prezioso e più caro del petrolio. Naturalmente si comincia dal sud del mondo.
Però c’è un aspetto positivo di questo “soggiorno” a Port Sudan, città che al momento pullula di sudanesi. “Dovunque vado – racconta Suliman- trovo persone che conosco, chiacchieriamo…”, e per un po’ non pensano agli angosciosi problemi contingenti. Questa dimensione collettiva si ritrova pure nella casa dove abitano: “Mangiamo insieme, c’è tanta gente” è una frase che ci parla nello stesso tempo sia della convivialità che del sostegno economico reciproco, e questo non è poco.
Oggi alle 12 era prevista una conferenza stampa con esponenti del governo sudanese e lui era intenzionato ad andare a sentire. Gli chiedo se è aperta a tutti. No, ma lui, mi ricorda, è una persona conosciuta e “una persona conosciuta entra”. A questo proposito mi dice una cosa importante ormai successa, anzi ‘non successa’ che non mi aveva ancora raccontato: allo scoppio della guerra (aprile 2023) tutte le ambasciate presenti a Khartum (ben 205) hanno avuto tre giorni per “chiamare le loro persone” – cittadini sudanesi che avevano avuto rapporti significativi e positivi con il Paese che l’ambasciata rappresentava. “Io ero conosciuto dal governo italiano”: era stato infatti il rappresentante della comunità sudanese per i 7 anni del suo asilo politico. Mi ricorda per esempio che è stato lui il firmatario del contratto stipulato con il Comune di Roma che assegnava ai rifugiati sudanesi la palazzina di Via Scorticabove (e questo nome mi risbuca alla memoria di botto) sulla Tiburtina. Insomma lui avrebbe avuto pieno diritto a rientrare in Italia (con famiglia) attraverso l’Ambasciata Italiana, ma per somma sfortuna il funzionario dell’Ambasciata che conosceva la sua storia e anche la limpidezza del suo operato negli anni italiani non era in quei giorni in servizio, stava all’estero, e quando è rientrato si è dovuto direttamente trasferire ad Addis Abeba. Questa cosa mi fa molta rabbia. Capisco che quella pazienza (“sabur”, in arabo) su cui tante volte Suliman scherzava e di cui era molto dotato (anche se da quando lo conosco non fa che ripetere “mia sabur finita”) l’ha interiormente salvato.
La telefonata si interrompe. Non ho la scheda per poterlo richiamare. Passano 10-15 minuti e ricevo una nuova chiamata da lui. Era stato interrotto da un sudanese che telefonava dal campo di Istet dove sta il nipote: sono iniziate le piogge, piove 24 ore al giorno, però lì dove stanno non ci sono uomini armati che minacciano e uccidono. L’acqua la prendono al naturale, lì passa il Nilo Blu, speriamo che non sia troppo inquinato. Nel campo sono circa in 6.000. Suliman ribadisce al suo interlocutore che sarebbe stato molto pericoloso se il nipote li avesse seguiti. Ma c’è una notizia molto triste che viene da quel campo: una bambina di 12-13 anni, figlia della giovane donna ammazzata dai Janjaweed poco dopo la partenza di Suliman dal campo, si è ammalata di malaria. E la tragedia è doppia perché “non ci sono medicine né medici”. Il “Medical Team ” che era presente nel campo ha subito un mese fa un grave attentato, uno di loro è stato ammazzato, e tutti gli altri sono fuggiti ad Addis Abeba.
Ora gli faccio la domanda banale che mi è venuta in mente dopo l’interruzione della telefonata, pensando ai tanti rischi legati al ripartire verso un Egitto che non li vuole: “Ma non sarebbe meglio restare a Port Sudan?” “No” risponde subito, e poi: “Qui non va bene: l’acqua di mare fa male ai reni”. Sento dall’altra parte del telefono un bambino che strilla quasi disperato e chiedo chi è: è un nipote di Fatima (si sono ritrovati dunque – penso), o meglio il figlio di una nipote; il marito di questa donna (con due figli) sta in Arabia Saudita (da prima della guerra, per lavoro) e lei da mesi cerca di muoversi con i due bambini per poterlo raggiungere, ma si può dire che è arrivata inutilmente a Port Sudan perché in quella città non c’è un’ambasciata dell’Arabia Saudita, “quindi niente visto”. Situazione disperante. Quegli strilli li merita tutti.
Chiedo a Suliman che ne è del loro “ottenuto” diritto all’asilo politico e mi rendo conto che non ha chiari neanche lui quali dovrebbero essere i passaggi ora che si è allontanato dal campo dove aveva fatto l’intervista. Mi sembra di capire che sotto questo aspetto essere là lo poneva in una situazione più riconoscibile di rifugiato avente diritto, quasi che essendo tornato in Sudan qualcuno potrebbe obiettare: “Se sei potuto tornare, allora il tuo Paese non è così pericoloso”. Lui stesso riconosce che sono molto più sicuri ora a Port Sudan in Sudan che due mesi fa a Kumer, campo dell’Onu per rifugiati politici, in Etiopia, ma è tutto molto assurdo e contraddittorio. Gli chiedo se ha una carta che lo dichiara avente diritto all’asilo politico. Sì, ce l’ha, scritta in amarico e in inglese; me la manda via Whatsapp e mi chiede, se posso, di parlare con qualcuno che “conosce bene la Convenzione di Ginevra”.
Al commiato segue una piccola coda più piacevole. Gli nomino “Mani Rosse Antirazziste” (il giovedì è giorno di sfilata) e lui che gli è infinitamente grato per una colletta fatta l’anno scorso dice: “Saluta tutti di Mani Rosse. Digli che Suliman vi saluta da Port Sudan, vicino al Mar Rosso”. E qui la notizia di un evento bello, finalmente leggero, in programma a giorni: “Domenica andiamo al Mar Rosso a fare il bagno perché dicono che fa bene”. Vanno in gruppo, naturalmente. E’ vicino, ci vanno a piedi. Mi soffermo un momento sulla bellezza del Mar Rosso e lui: “Mar Rosso bello in Egitto – Sharm. Anche Arabia Saudìa – Gedda; in Sudan… Ma i sudanesi non fanno UNA cosa buona”. E finalmente ridiamo.