Alle 8,15 del mattino del 6 agosto 1945 l’aviazione degli Stati Uniti d’America sganciò una bomba nucleare sulla città giapponese di Hiroshima. Il potentissimo ordigno detonò in aria a seicento metri dal suolo, provocando una violentissima deflagrazione, un’onda d’urto squassante ed un innalzamento della temperatura a livelli mai prima visti. La città venne letteralmente rasa al suolo e le vittime accertate almeno 140.000, che salirono negli anni successivi fino ad oltre 200.000. Appena tre giorni dopo venne colpita anche la città di Nagasaki.
Avevo incontrato gli hibakusha, i sopravvissuti al massacro atomico di Hiroshima e Nagasaki, nel 2017 e nel 2018 a Cagliari, quando approdarono al porto con la nave “Peace Boat”, che da tanti anni percorre i mari e i porti per chiedere la fine delle armi nucleari sul pianeta. Per accoglierli e dar valore e risalto al loro messaggio, avevamo costituito un comitato, espressione di gruppi, movimenti e sindacati della società civile sarda. Gli hibakusha si erano raccontati davanti agli studenti nelle scuole superiori, davanti alla cittadinanza, alle istituzioni regionali e comunali, alla stampa. Si parlava del Trattato per la proibizione delle armi nucleari alle Nazioni Unite, che nonostante sia stato legalmente approvato, tuttora non vincola i paesi non firmatari, ovvero tutte le potenze nucleari e i loro stretti alleati, fra cui l’Italia. Ma comunque quel doppio passaggio della Peace Boat a Cagliari era stato importante come impatto sulla gente, per coinvolgere un più ampio pubblico sulle tematiche pacifiste, disarmiste e nonviolente.
Così, trovandomi in viaggio in Giappone, non ho potuto fare a meno di recarmi al Memoriale della Pace di Hiroshima. E’ un parco pubblico, molto essenziale nell’architettura, come a voler dare il senso dello spazio che si apre, a superare e trascendere quel trauma. Ma al contempo, in modalità perfettamente giapponese, dà estrema cura ai particolari, dalle aiuole ai simboli di pace, agli origami delle gru per Sadoku, piccole teche trasparenti dove si possono lasciare origami, ma anche messaggi. Io uno l’ho scritto e l’ho lasciato lì: MAI PIU’ BOMBE NUCLEARI, DISARMO E PACE, in italiano e in sardo. Forse un piccolo atto dal sapore rituale, ma sentivo di farlo. Sadoku è la bambina simbolo di Hiroshima che per salvarsi aveva giurato di fare gli origami di mille gru, per la pace nel mondo. Morì prima di completare la sua opera, ma tutte le persone possono ancora, stringendosi accanto al monumento per i bambini, esprimere un pensiero, o solo meditare in silenzio.
Visitando il Museo del Memoriale della Pace di Hiroshima, si torna indietro nel tempo e ci si ritrova immersi in quell’immane tragedia. L’esplosione dell’atomica trasformò in pochi istanti la città in un vero e proprio inferno. Un inferno descritto dalle poche fotografie esistenti, dai disegni e dai dipinti dei testimoni oculari, dai racconti dei sopravvissuti. La temperatura al suolo divenne così alta da incendiare non solo gli alberi, le case e le strutture in legno e in cemento, ma da staccare la pelle delle persone, scioglier loro gli occhi, squagliare gli organi interni. I cavalli, che guidavano le carrozze nei viali, impazzirono e si tuffarono nei fiumi, per annegar lì. Anche molte persone si gettavano nel fiume, per spegnere le fiamme che le avevano avvolte, o cercare di trovare ristoro all’enorme calore. Chi non era morto sul colpo si trascinava ferito ed ustionato, con la pelle a brandelli, con le carni che bruciavano dentro, alla ricerca d’acqua per spegnere quel fuoco. Quell’acqua stessa, che ne avrebbe solo accelerato la morte. Così come la pioggia che cadde nei giorni successivi, descritta dai testimoni come “la pioggia nera”, altamente radioattiva.
Il museo della pace ci racconta l’orrore di una bomba devastante, ci fa vedere i reperti, gli abiti a brandelli, il triciclo di un bimbo carbonizzato, il dolore cocente, ma non lo fa per terrorizzarci, ma per aprirci gli occhi, per non farci dimenticare quanto la guerra possa comportare e quali crimini inarrivabili possano compiere gli Stati e i loro eserciti, facendoli passare per azioni necessarie, per una “giusta causa”.
Ma, passo dopo passo, ci indica anche la sudditanza della scienza al potere politico, soprattutto nei tempi di guerra, l’impossibilità per le vittime di essere considerate e risarcite per oltre un decennio. Gli Stati Uniti d’America, stato vincitore, occuperà il Giappone fino al !958, anno in cui gli hibakusha vengono per la prima volta riconosciuti dallo Stato giapponese. Nel frattempo i servizi segreti USA, con il beneplacito della scienza ufficiale, hanno fotografato e filmato tutti gli orrori sui corpi delle persone, li hanno studiati e se li sono portati via, per archiviarli e secretarli.
Ma non serve occultare gli orrori, per riscrivere la Storia a proprio uso e consumo, da Cristoforo Colombo in poi. Quella che ad oggi è la prima potenza planetaria si è fondata sul genocidio dei nativi americani e sulla manodopera forzata degli schiavi africani. E quel 6 agosto di sessantanove anni fa ha sganciato quella bomba.
Ma l’imperialismo militare statunitense, non è più solo.
Oggi ci sono almeno 15.000 ordigni nucleari, di proprietà di nove diversi Stati: USA, Russia, Gran Bretagna, Francia, Cina, Corea del Nord, India, Pakistan e Israele, anche se quest’ultima non ha mai ammesso né smentito ufficialmente. Sono dislocati in numerosi paesi, fra cui anche l’Italia.
Forse i capi di questi paesi vorrebbero che parlare di Hiroshima e Nagasaki fosse solo uno spot commemorativo e non viceversa un momento di meditazione e di riflessione profonda sulle conseguenze di una guerra nucleare, che ci porti a condividere che non può esistere al mondo alcuna causa giusta per compiere una simile atrocità.
Soprattutto oggi, in un mondo sempre più avviluppato in belliche follie, dovremmo ricordarcelo.