Da dove nasce la tua passione per l’educazione?

Difficile rispondere a questa domanda. Sarebbe come chiedere ai salmoni che cosa li spinge a risalire i torrenti per depositare le uova nel posto dove sono nati. Chi insegna la strada alle rondini che tornano sotto il tetto della tua casa dopo aver percorso migliaia di chilometri senza mai fermarsi? Si dice che sia l’istinto. Lo stesso potrei direi io: la predisposizione naturale, la vocazione e l’attitudine verso l’insegnamento. È un intricato intreccio di natura, cultura ed esperienza personale e ognuna di esse offre un modo unico per comprendere e vivere il mondo. Io credo che il ruolo del docente sia un atto di grande valore, una condivisione preziosa che va oltre la mera trasmissione di conoscenze. Esso implica generosità, altruismo e un profondo impegno verso gli altri. I grandi maestri del passato dedicavano la loro vita all’insegnamento, non solo per diffondere il sapere, ma anche per coltivare virtù e crescere interiormente.

La bellezza del ruolo del maestro risiede proprio in questa dimensione più ampia: non è semplicemente un mestiere, ma una vocazione che plasmava il carattere e l’anima di chi lo abbracciava. Oggi la parola “vocazione” fa rabbrividire sia insegnanti sia operatori sociali, ma la realtà è che in questi settori serve predisposizione. Insegnare non è per tutti! Insegnare significa ispirare, guidare e formare le menti e i cuori delle nuove generazioni, contribuendo alla loro crescita e al loro sviluppo. Ecco perché l’insegnamento va oltre la mera trasmissione di nozioni: è un atto di amore, di dedizione e di fiducia nel potenziale umano. Dovremmo sempre ricordare che attraverso le loro parole, i loro gesti e il loro esempio i maestri lasciano un’impronta indelebile nella vita di chi ha la fortuna di incontrarli.

Quando ti sei accorto della profonda diversità tra l’educazione riduzionista occidentale e l’educazione olistica orientale?

C’è voluto un trauma. Avevo lasciato la scuola, dopo dieci anni di insegnamento, per dedicarmi a tempo pieno al giornalismo. Ero direttore di un settimanale del Triveneto. Lavorai per due anni con grande entusiasmo, assieme a giovani praticanti bravissimi, di grande talento, che divennero poi professionisti affermati, come Gian Antonio Stella, ad esempio, inviato speciale ed editorialista del Corriere della Sera. Oppure il giornalista Giuseppe “Pino” Nicotri, che è stato un giornalista de L’Espresso per 35 anni e ha scritto una quindicina di libri-inchiesta. Ricordo anche Roberto Bianchin, inviato speciale per Repubblica per 25 anni. L’esperienza gloriosa del giornalismo durò due anni, fino a quando il settimanale cessò le pubblicazioni e io mi ritrovai disoccupato, con una serie di querele da gestire e una fama di “rivoluzionario scomodo” che mi precluse la possibilità di trovare un impiego presso altri giornali. Tentai di tornare a insegnare. All’epoca il rientro era condizionato al parere di una commissione del Provveditorato e mi negarono il permesso di tornare con la motivazione: “Ha dimostrato scarso attaccamento andandosene”.

Avevo 32 anni. Mi confrontai con una crisi esistenziale che motivò un “viaggio” simbolico per uscire dall’incubo verso la conoscenza, la redenzione e la comprensione di sé, esattamente come Dante si perse nella “selva oscura”. Il viaggio mi portò prima in ospedale, dove incontrai un anziano solo, in una stanza, che rantolava. “Sta morendo” – disse l’infermiera e aggiunse – “Non sta soffrendo”. Provai una grande empatia per quel moribondo abbandonato e pensai: “Che ne sa l’infermiera di cosa sta provando quell’uomo? E quando sarà il mio turno, chi mi aiuterà?”.

Il mio “viaggio” continuò e finii per caso in un centro buddhista appena aperto. Lì incontrai gente protagonista di molti miei articoli e inchieste: “figli dei fiori”, ribelli scapigliati, ma anche persone di una certa età, serie e colte. E poi c’era un vecchio monaco tibetano che parlò per giorni di inferni caldi, freddi, inferni dei tormenti. Esasperato, durante un intervallo, reagii dicendo: “Beati i cristiani. Loro hanno un solo tipo di inferno”. Un giovane monaco mi rispose con una sola domanda: “Hai guardato la tua mente?”. Questa domanda provocò un corto circuito all’interno della mia coscienza. Fu una folgorazione, un’esperienza improvvisa e profonda di illuminazione, rivelazione o trasformazione, come se una luce interiore si fosse accesa improvvisamente, portando una nuova consapevolezza, comprensione e scoperta spirituale. Fu quello il momento in cui mi resi conto di aver trascorso 30 anni della mia vita a cercare i valori come la felicità, la giustizia, la pace, l’amicizia e la sicurezza, dando la caccia ai suoi nemici.  Avevo cercato per tanti anni i nemici, i fascisti, i cattivi, i corrotti nel posto sbagliato. Capii che la realtà percepita non è là fuori, ma una costruzione della mia mente e cervello. Questa comprensione fu l’inizio della mia “conversione”, che non ha niente a che vedere con la religione, nel senso del riconoscimento delle proiezioni e del loro ritiro alla fonte: la mente che pensa.

La “conversione” nel contesto della pedagogia non-dualista del Progetto Alice rappresenta un concetto molto importante. Il ritiro delle proiezioni implica il riconoscimento che le nostre percezioni e giudizi sono spesso influenzati dalle nostre proiezioni personali. Queste proiezioni possono derivare da esperienze passate, pregiudizi culturali o aspettative. Nel contesto educativo, ciò significa che gli insegnanti e gli studenti dovrebbero essere consapevoli di queste proiezioni e cercare di vedere le cose oggettivamente, senza distorsioni. La “conversione” richiede un’auto-riflessione profonda. Gli insegnanti dovrebbero esaminare le loro convinzioni, pregiudizi e atteggiamenti, cercando di separarli dalla realtà oggettiva che, secondo Alice, è sconosciuta e resta una meta da raggiungere con un lungo percorso di autoconoscenza e consapevolezza come il processo di individuazione di Jung.

Nella ricerca della realtà oggettiva, dobbiamo liberarci da preconcetti, schemi mentali e abitudini di pensiero che ci hanno accompagnato per anni. Questo processo di “disimparare” ci permette di guardare il mondo con occhi nuovi, senza lenti distorte del dualismo e delle sovrastrutture concettuali. Solo allora possiamo avvicinarci alla realtà in modo più aperto e autentico. Mi vengono in mente il filosofo e pedagogista austriaco Ivan Illich e il concetto della “descolarizzazione”, per portare a una maggiore autenticità e apertura nell’insegnamento e nell’apprendimento.

Come e quando nasce l’Alice Project Universal Education e quale è la sua idea di scuola?

Noi siamo per una scuola che accoglie due mantra: il primo “Conosci te stesso” e il secondo “Uno studente ‘diviso’ non può essere felice!”. Per realizzare questo tipo di scuola abbiamo lavorato prima per una decina di anni nella scuola pubblica in Italia e poi, su consiglio del Dalai Lama, per 30 anni in India. Fu proprio il Dalai Lama nel 2006 a dare la sua benedizione e il suo sostegno ad Alice per il suo operato. Oggi continuiamo a sperimentare, verificare, cercare.

L’idea del Progetto Alice nacque negli anni Ottanta, quando riuscii a tornare a scuola, dopo l’esperienza giornalistica e dopo la “folgorazione” che mi portò alla “conversione” di cui ho già parlato. Non potevo continuare a insegnare come “prima”. La visione del mondo e di me stesso era totalmente cambiata. Mi ero reso conto che la scuola era ammalata e insegnava verità convenzionali spacciandole come oggettive, vere in assoluto. Ad esempio, non esiste maestro al mondo che non insegni ai bambini a riconoscere le parti dell’albero, che viene diviso in tre sezioni: radici, fusto, foglie. Questa è la verità convenzionale, una divisione concettuale che è utile, ma non vera. In realtà, non esiste alcun albero diviso in tre parti poiché ogni albero è un tutt’uno indivisibile. Questa seconda affermazione viene nascosta agli studenti e gli viene impedito di coltivare il dubbio. Progetto Alice invita gli studenti a riflettere sulle illusioni create dalla mente umana e sull’importanza di riconoscerle per migliorare la propria realtà e il pensiero del mondo che ci circonda.

E’ importante, oltre a conoscere le materie scolastiche, essere consapevoli dell’attività e delle funzioni del nostro cervello che, insieme alla mente, creano una realtà fatta di immagini, pensieri, ricordi, sensazioni, percezioni, classificazioni, divisioni ed emozioni. Questa realtà, una volta creata, viene proiettata in una supposta dimensione materiale esterna, e finiamo per scambiare la nostra proiezione per una realtà oggettiva e indipendente dalla mente che l’ha creata.

Oggi nelle scuole italiane non siamo educati a riconoscere queste illusioni create dalla mente, ma al contrario queste vengono rafforzate, offrendo una sorta di “supporto scientifico” che le rende ancora più credibili. Questo autoinganno mentale porta inevitabilmente a dei risultati negativi, come dimostrano le statistiche che rivelano quanta sofferenza esista nel mondo. Nonostante possa sembrare una visione controversa, non si può negare che l’essere umano sia influenzato dalle proprie percezioni, emozioni e pensieri. Il modo in cui interpretiamo la realtà è strettamente legato alla nostra mente e alle nostre esperienze passate. Spesso ci lasciamo trascinare da convinzioni radicate che influenzano le nostre azioni e i nostri giudizi, portandoci ad agire in modi che possono essere dannosi per noi stessi e per gli altri.

In un contesto educativo come quello delle scuole del Progetto Alice l’invito a riconoscere le illusioni create dalla mente (che i buddhisti chiamano Maya) può essere una vera e propria rivoluzione. Aiutare gli studenti a prendere consapevolezza delle proprie percezioni e a mettere in discussione le proprie convinzioni può essere un passo fondamentale per favorire uno sviluppo personale e sociale più armonioso, per allontanarci dalle illusioni create dalla mente e avvicinarci a una realtà più autentica. Solo così potremo sperare di costruire un mondo migliore, basato sulla consapevolezza, sull’empatia e sulla comprensione reciproca. La nostra pedagogia non-dualista potrebbe essere un valido strumento per avviare questo processo di trasformazione.

In sintesi, il Progetto Alice è nato proprio dall’analisi del fallimento del modello educativo basato su una concezione del mondo materialistica, meccanicista, che separa la “scienza” dalla “morale”, la fisica dalla metafisica, il corpo dalla mente, la psiche dalla materia, l’io dal tu e dagli altri, la storia dalla matematica, la fisica dalla filosofia, l’Italia dalle altre nazioni, il Sole dalla Luna, la Terra dai pianeti e dal sistema solare.

Ci siamo domandati dove ci stesse portando questa visione empirico-oggettuale che insegna solo a dividere, separare, classificare, misurare, giudicare. Ci siamo chiesti se avesse creato più felicità, oppure gravi disagi progressivamente più numerosi e “condivisi” con milioni di persone. La risposta è a nostro avviso sotto gli occhi di tutti. Così, una volta dimostrato il fallimento della scuola che si ispira a una visione del mondo errata – perché incapace di offrire una valida terapia al disagio esistenziale di milioni di persone e alla sofferenza della Terra come il disastro ecologico – ci siamo messi alla ricerca di un nuovo modello di scuola fondato su un diverso paradigma scientifico: quello rivoluzionario della fisica subatomica e delle moderne teorie sistemiche ed olografiche.