Approfitto della sosta a Bucarest per chiedere un’intervista al movimento e gruppo politico Aresel, che tradotto dal romanes significa “Basta!” e che in questo caso acquista il significato di basta odio, discriminazione, razzismo. A promuovere questo movimento, che nasce da quindici anni di impegno politico e sociale, sono giovani attivisti rumeni rom e romrì, uomini e donne.
Li raggiungo grazie al loro collegamento con il gruppo italiano di rom e sinti Kethane (unirsi) e all’amicizia con l’attivista italiana Diana Pavlovic.
Nella sede di Aresel incontro Alin Banu, Nicu Dumitu e Anda Constantine, che ha vissuto in Italia una ventina di anni fa e ha conservato un buon italiano, cosa che rende superfluo l’uso del traduttore del cellulare.
Nella saletta dove ci sistemiamo per un lunghissimo incontro si mischiano quattro lingue: italiano, inglese, romanes e rumeno, alla ricerca delle parole più adatte a veicolare concetti anche complessi.
Innanzitutto va detto che la Romania è forse il Paese d’Europa con la più alta percentuale di rom, che sono più del 10% della popolazione. Difficile, praticamente impossibile, avere cifre esatte.
A partire dal periodo del Socialismo Reale, le politiche di inserimento sociale e di assimilazione hanno da un lato portato alla presenza in ogni ambito lavorativo, anche ad altri livelli, di una fascia, certo ristretta, della popolazione rom, che ha avuto accesso e successo negli studi universitari e nelle conseguenti professioni. Dall’altro lato la grande maggioranza di queste persone vive ormai nascondendo la propria origine a fronte di un razzismo assai radicato in Romania e nell’intero continente europeo.
La storia della persecuzione dei rom in Romania è sicuramente una delle più tremende conosciute da un popolo in Europa. Giunti in Romania sul finire del Medioevo, diventano servi della gleba, schiavi nel vero senso del termine: una parte maggioritaria viene soggiogata dalla Chiesa Ortodossa, una parte dallo Stato e dai principi e una parte diventa proprietà dei boiardi.
La condizione di schiavitù dei rom in Romania è la più lunga subita da un popolo in Europa e si conclude soltanto nel corso del 1800, ma l’affrancamento dalla servitù della gleba per molti è più formale che sostanziale; inoltre i movimenti nazionalisti che si costituiscono nell’Ottocento fomentano il razzismo.
É durante il Novecento tuttavia che per i rom di Romania si scatena un vero inferno, prima di allora inimmaginabile e che assume tutte le caratteristiche di un vero genocidio… colpevolmente rimosso e dimenticato.
Uno dei maggiori responsabili è sicuramente Cornelius Zelea Codreanu, fascista rumeno che nel 1927 fonda un partito ultranazionalista ispirato al fascismo italiano e al nazionalsocialismo tedesco, partito che assumerà nomi diversi – Tutti per la Patria, Guardia di Ferro, Legione dell’Arcangelo Michele, Movimento dei Legionari. Il suo programma politico è chiaro: fomentare l’odio nei confronti di ebrei, zingari, comunisti e ripudiare la democrazia. Nicu, che è stato anni fa a Roma, manifesta il suo sconcerto per le iniziative promosse dai neofascisti italiani, di Casa Pound immagino, per onorare la figura di un simile criminale.
Durante la Seconda Guerra Mondiale la Romania è alleata della Germania e dell’Italia e partecipa attivamente alla deportazione nei campi di sterminio degli ebrei e dei rom.
Il numero dei rom e delle romrì sterminati in Romania, morti durante il trasporto nei treni blindati e nei lager è incalcolabile, perché per i nazifascisti le loro vite non valevano neppure la pena di essere contabilizzate. Parliamo comunque di oltre mezzo milione di persone.
La sconfitta del nazifascismo segna la fine del genocidio. Il regime comunista rumeno di Nicolae Ceausescu e della moglie Elena, giunto al potere con l’arrivo dell’Armata Rossa, è una variante del modello sovietico stalinista.
I rom sono considerati cittadini a tutti gli effetti e vengono loro garantiti i diritti sociali, ma la politica del Conducador è improntata a un forte nazionalismo, rifiuta la libera espressione del pensiero e punisce il dissenso: i rom non possono quindi avere associazioni culturali autonome e subiscono una forte pressione verso l’assimilazione forzata.
Con la caduta del regime di Ceausescu a seguito della rivolta/rivoluzione/colpo di stato del dicembre del 1989 la vita dei rom cambia profondamente: nascono gruppi, associazioni culturali e politiche, ma per molti di loro, come per molti cittadini rumeni, ci sono al tempo stesso, con l’ingresso della economia di mercato, meno garanzie sociali, in primo luogo rispetto al lavoro. Infatti, soprattutto dopo l’ingresso nell’Unione Europea, moltissimi rom emigrano e tanti sono quelli che raggiungono l’Italia dove, nonostante la difficile situazione vissuta nei campi, c’è pur sempre la possibilità di mettere da parte qualche soldo per poi fare ritorno in patria.
In Romania nel frattempo le lotte dei rom e della società civile hanno portato al riconoscimento e alla tutela dei rom come gruppo linguistico e culturale e a leggi che vietano la discriminazione esplicita.
Restano tuttavia radicati pregiudizi culturali che affondano persino nella Chiesa Ortodossa, in genere tradizionalista e conservatrice, che non ha mai chiesto perdono per oltre cinque secoli di schiavitù dei rom, utilizzati non solo come braccianti, ma anche come manodopera gratuita per la costruzione di chiese e basiliche.
Il problema principale, mi dicono, è che nel Parlamento sono assenti rappresentanti dei rom con un vero rapporto con la comunità. Ci sono posti riservati alle minoranze linguistiche, ma il parlamentare che da trent’anni dovrebbe rappresentare i rom, secondo gli attivisti di Aresel rappresenta poco più che se stesso. Per questa ragione hanno deciso di costituirsi in partito politico e di partecipare alle elezioni che si terranno da qui a pochi mesi.
“Noi non diremo mai: prima i rom, anche se così è facile raccogliere i voti” dice Nicu, che conosce la politica italiana. “Il nostro programma è per la democrazia vera, sostanziale, partecipata, dal basso. Questa volta saremo noi a proporre alla società civile rumena ed europea un modello sociale fondato sull’inclusione e il rispetto delle differenze.
Vorremmo ricordare che per un millennio della nostra storia siamo sopravvissuti senza uno Stato, senza un esercito, senza fare guerre per conquistare la terra di altri. In questa resistenza pacifica alla sopraffazione siamo maestri. Siamo presenti da oltre seicento anni in tutti gli Stati europei e possiamo essere valorizzati per costruire una vera Europa dei Popoli, che rifiuti i suprematismi e la guerra.”
I miei nuovi amici condividono i miei timori; Anda sostiene che perfino il ritorno all’orrore di Auschwitz sia una possibilità che non può essere esclusa. Hanno però quello che Antonio Gramsci chiamava “l’ottimismo della volontà” e quindi hanno deciso di rimboccarsi le maniche.
Per le nuove forze politiche ci sono, come in Italia, ostacoli a non finire: la raccolta di centinaia di migliaia di firme e poi lo sbarramento del 5% dei voti. Una “missione impossibile”, ma ci provano perché, si percepisce, per loro la politica è fatta di sfide, ideali e passione.