E’ successo di nuovo. Non più tardi di due giorni fa, prime ore del 26 agosto, di nuovo in piena notte, nel quartiere di Dagenham, zona est di Londra. Esattamente dalla parte opposta rispetto a quel punto sulla mappa di Londra, dove sette anni fa un intero edificio a più piani, la Grenfell Tower, si trovò avviluppato dalle fiamme a causa di un banale cortocircuito sviluppatosi in un appartamento dei primi piani – che i vigili del fuoco subito intervenuti avrebbero potuto facilmente contenere, se non fosse stato per quella recente ristrutturazione che aveva ricoperto tutte e quattro le facciate dell’edificio di pannelli tutt’altro che ignifughi, anzi altamente infiammabili. Una gabbia di fiamme che nel giro di poche ore guadagnò rapidamente i piani alti, condannando alla morte per soffocamento coloro che non erano riusciti a scappare.
Quest’anno di nuovo, per il settimo anno consecutivo, i vari comitati che si coordinano nell’associazione Grenfell United, insieme al sindacato dei vigili del fuoco che in quell’occasione furono eroici, insieme ai tantissimi che questa storia non hanno mai smesso di seguirla, si sono dati appuntamento ai piedi della torre per l’anniversario della tragica data, 14 di giugno. Per l’ennesima silenziosa processione, l’ennesima sfilata di cartelli e striscioni, l’ennesima richiesta di giustizia, per quei 72 disgraziati che non ci sono più. Fra loro c’erano anche i due italiani Giorgia Trevisan e Marco Gottardi, giovani, architetti, pieni di sogni, promesse, capacità.
Incredibile ma vero le responsabilità, non sono ancora state accertate. In questi sette anni la ‘commissione di inchiesta’ ha esaminato oltre 300.000 documenti nell’arco di due diverse fasi, e il 4 settembre dovrebbe produrre una qualche ‘conclusione’ e forse (ma non è affatto certo) avviare il ‘processo’.
Sette come gli anni che sono trascorsi.
Sette come le lettere che compongono la parola justice, giustizia.
Sette come nella cifra che dà 72: i morti. We want justice!
è la scritta che vedi più spesso comparire su quei muri istoriati di messaggi.
La vicenda della Grenfell Tower segnò in un certo senso la fine della bolla immobiliare che dal 2010 in poi aveva visto lievitare vertiginosamente i valori anche nelle zone più periferiche di Londra, anche in quelle caratterizzate da un’edilizia ‘popolare’ come appunto poteva considerarsi la Grenfell Tower, tipico esempio di architettura cd brutalista: multipiano di cemento, appartamenti tutti uguali dai piani bassi a quelli alti – che la relativa vicinanza a zone di pregio – Notting Hill, Portobello, Kensington – aveva reso un promettente investimento in prospettiva.
Ci sono tornata di recente, nel corso di un breve soggiorno a Londra e di nuovo mi sono commossa di fronte a quel lungo ‘muro del pianto’ che nell’arco degli anni avevo visto nascere ai piedi della torre – e che non è scomparso, anzi si è sempre più fittamente ricoperto di foto, mosaici, scarabocchi, interventi artistici, poetici, floreali, d’ogni tipo. Anche dopo sette anni il muro non ha smesso di servire da pubblica lavagna, meta di pellegrinaggi, coagulo emotivo, per una comunità non solo di superstiti e familiari, ma anche di comuni cittadini, turisti, gente di passaggio – gente che una simile storia non la vuole proprio archiviare.
Allontanandomi un po’ dal muro, eccomi di fronte alla chiesetta, che quella tragica notte fu il primo rifugio e centro operativo – e tale continuò a essere anche per i mesi successivi.
Proseguendo nel mio percorso mi sono ritrovata sotto il cavalcavia, sempre più ‘arredato’, per dire che è diventato proprio un punto di incontro per il vicinato. Sempre più teatro di street art, sempre meglio investito di community projects, per esempio sotto forma di enormi casse a mo’ di orti urbani, e con la novità di un piccolo Hope Garden, Giardino della Speranza, che è sorto al di là di un ponticello, lungo un breve percorso che finisce con una panchina: luogo di pausa, pace, meditazione, natura che ti accoglie come fosse una cappella, lo spirito del luogo che lì ha trovato casa.
Ma lo scandalo appunto continua. Poco ore dopo essere riusciti a domare l’incendio scoppiato a Dagenham due giorni fa, ecco di nuovo i pompieri in azione per un altro edificio in fiamme in zona Poplar, tutt’altro che popolare: le foto ritraggono un’architettura di recente costruzione, ma già da tempo ritenuta ‘a rischio’ per i soliti per niente ignifughi rivestimenti esterni, così apparentemente funzionali, attraenti, facili da applicare e tenere puliti, ma ahimè infiammabili.
Un’emergenza che secondo il segretario generale del FBU (Sindacato dei vigili del fuoco) riguarderebbe centinaia di migliaia di edifici in tutto il Regno Unito, 1.250 solo nella città di Londra. La domanda sorge spontanea: ma come è possibile che dopo una tragedia immane come quella della Grenfell Tower, le varie authorities inglesi, a cui spetterebbe il compito di regolamentare il mercato, le procedure di costruzione o ristrutturazione, non siano riuscite ad arginare il problema dell’insicurezza abitativa? Nel frattempo, gli amici che abitano a Londra mi raccontano dell’incredibile crescita delle cosiddette service charges, ossia le spese condominiali, in relazione alle sempre più alte spese di assicurazione, che naturalmente stanno registrando quotazioni sempre più attraenti sul mercato azionario… tutto torna.
Le foto sono tratte dalla Pagina Facebook Grenfell Tower Fire – Community Support & Communication