La prodigiosa trasformazione della classe operaia in stranieri è uno dei film che, pur essendo fuori concorso, ha caratterizzato il Festival di Locarno conclusosi recentemente. Il regista, Samir, è egli stesso un immigrato, nato a Baghdad nel 1955 da padre iracheno e madre svizzera; da bambino ha dovuto abbandonare con la sua famiglia il Paese natio a causa della militanza comunista del padre, entrata in rotta di collisione con il regime al potere.
Samir arriva a Zurigo dopo un lungo viaggio in treno, mezzo con il quale, nei primi anni ‘60, si attraversavano i confini, pur tra avventure e imprevisti; quegli stessi confini che oggi sono presidiati da polizie ed esercito e ai quali si arriva, quando non si muore lungo il tragitto, dopo terrificanti viaggi in mare, infiniti percorsi a piedi e dopo aver sofferto ogni sorta di ricatto e umiliazione. L’arrivo nella capitale economica della Svizzera e la meraviglia del bambino di fronte alla prima nevicata è l’unico passaggio autobiografico, ma segna fortemente il percorso successivo.
Dopo una formazione come operatore alla macchina, a metà degli anni Ottanta Samir ha iniziato a lavorare come regista realizzando film molto innovativi, capaci di suscitare dibattito come avvenuto in questo caso. Grazie a foto di famiglia, animazioni, clip musicali e materiale d’archivio, il film racconta in 130 minuti la storia dell’emigrazione dai Paesi vicini e principalmente dall’Italia, verso la Svizzera, dal dopoguerra a oggi. Una ricostruzione storica, precisa e che non fa sconti a nessuno, a destra, ma nemmeno a sinistra. Grande imbarazzo ha suscitato nei dirigenti sindacali di allora rivedere le posizioni assunte dalle loro organizzazioni, che per anni hanno vissuto l’immigrazione come un potenziale attacco alle condizioni dei lavoratori autoctoni; di conseguenza non offrivano alcuna copertura sindacale ai lavoratori immigrati, che anzi venivano ignorati nelle loro rivendicazioni. È stato necessario un duro scontro interno, stimolato dall’autorganizzazione dei lavoratori italiani, per modificare la linea sindacale.
Negli anni Sessanta chi emigrava dall’Italia alla Svizzera era obbligato ad affrontare condizioni di vita segnate dalla miseria e dall’umiliazione: nessuno affittava loro un alloggio, cartelli discriminatori vietavano l’entrata nei locali agli stranieri, in particolare agli italiani e ai…cani. Erano obbligati a trascorrere la notte nelle stazioni ferroviarie o nelle cabine telefoniche, pronti a scappare alla comparsa dei poliziotti; l’ipotesi migliore che poteva verificarsi era trovare posto nelle baracche collettive prive di servizi igienici e spesso esposte alle intemperie, pioggia e neve.
Il livello di discriminazione verso gli italiani era tale che, come mi ha raccontato Franco Cavalli, oncologo di fama mondiale di origine ticinese e da sempre attivo politicamente nella difesa dei diritti universali, quando i giovani della Svizzera italiana viaggiavano o si spostavano per lavoro o studio dentro la Confederazione elvetica, portavano con sé il passaporto per documentare la loro nazionalità ed evitare di essere trattati come gli italiani.
Impressionanti i racconti e le immagini dei bambini fatti entrare clandestinamente per aggirare i divieti, stabiliti dal governo di Berna, ai ricongiungimenti familiari; “bambini armadio” obbligati a vivere rinchiusi nelle baracche senza poter uscire per evitare di essere individuati e rispediti in Italia e obbligati a rendersi invisibili rinchiudendosi negli armadi durante i controlli di polizia. Trascorsero diversi anni prima che i governi italiani, nonostante la retorica sulla famiglia, decidessero di affrontare con le autorità elvetiche il tema dei ricongiungimenti familiari.
Eppure, i loro genitori erano coloro che stavano costruendo il boom economico svizzero, nell’edilizia e nell’industria, ma non avevano diritti esattamente come accadde ad altri nostri connazionali emigrati ad esempio a Toronto, come documentato da Stefano Agnoletto nel volume “The Italians Who Built Toronto. Italian Workers and Contractors in the City’s Housebuilding Industry, 1950–1980” : costruirono la città ed il suo boom edilizio, ma erano discriminati e ignorati dai sindacati, fino a quando non decisero di auto-organizzarsi e di costruire un proprio sindacato, che divenne la principale organizzazione degli operai dell’edilizia e che guidò le lotte per le rivendicazioni salariali e la sicurezza sul lavoro(1).
L’autorganizzazione degli italiani in Svizzera passò attraverso le Colonie Libere Italiane (CLI), che erano sorte nel 1925 a Ginevra, in contrapposizione al tentativo di Mussolini di controllare le organizzazioni all’estero degli immigrati italiani, per organizzare gli antifascisti rifugiatisi in Svizzera e per diffondere le idee di libertà e democrazia tra gli immigrati del nostro Paese. Negli anni Sessanta le CLI si moltiplicarono, diventando spazi autogestiti di vita collettiva, di resistenza e solidarietà contro le discriminazioni.
Se da un lato vi erano i ritardi e le contraddizioni sindacali e di parte della sinistra politica svizzera, dall’altra i partiti della destra erano agguerritissimi. James Schwarzenbach, un politico di estrema destra, promosse nel 1970 un referendum contro l’ ”inforestierimento” che , se approvata, avrebbe prodotto l’espulsione di 300.000 immigrati. Il 54% dei votanti bocciò la proposta, ma l’adesione del 46% a tale iniziativa discriminatoria e dal sapore razzista costituì uno shock per la comunità italiana locale. Alle iniziative politiche della destra si accompagnavano la schedatura e i controlli di polizia a tappeto dei nostri connazionali.
Il regista non esita, nella parte finale del documentario, a esplicitare quello che qualunque spettatore ha avuto modo di maturare dentro di sé nelle due ore di proiezione: quello che vediamo nel film non fa parte del passato, ma sono immagini che si sovrappongono al presente. Quello che allora sperimentava sulla propria pelle la classe operaia italiana che emigrava oggi ricade, con maggior violenza, sugli “stranieri” che arrivano dall’Africa, dall’Asia, dalle diverse parti del mondo. Una storia che si ripete, nella sua tragicità.
Allora gli italiani costruivano case nelle quali non avrebbero mai abitato, case destinate agli svizzeri, mentre loro erano obbligati a vivere in baracche; oggi gli immigrati costruiscono case nelle quali andranno a vivere anche molti italiani ormai con cittadinanza svizzera, mentre a loro non restano che le baracche.
Ciò nonostante, il messaggio di Samir guarda in avanti, verso i giovani, augurandosi che siano capaci di rompere questo circuito infernale e coglie un importante segno di speranza nella scelta di un gruppo di ragazze/i di Zurigo di occupare quella che una volta era una Colonia Libera con l’obiettivo di sottrarla alla speculazione edilizia e farla diventare un centro aggregativo in quartiere, continuando quell’opera di costruzione di socialità e democrazia per la quale era nata.
Le speranze e l’impegno di Samir sono le nostre. Un film che, se sarà disponibile, dovremo far girare anche nel nostro Paese.
Ha collaborato Teresa Patrignani.