Tremila miliardi di euro. È la cifra che nel 2024 verrà raggiunta dal debito pubblico italiano. Circa 50 mila euro per abitante della penisola. Cento volte l’ammontare medio di una manovra economica nella legge di bilancio. Corrisponde al 140% del Prodotto Interno Lordo, ovvero della ricchezza prodotta in 16 mesi dall’Italia. Con circa 100 miliardi di euro di interessi da pagare ogni anno ai creditori.
Di conseguenza non sorprende che il Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta, intervenendo al Meeting di Rimini il 21 agosto, abbia detto: “L’Italia è l’unico Paese dell’area dell’euro in cui la spesa pubblica per interessi sul debito è pressoché equivalente a quella per l’istruzione. Sottolineo questo confronto perché è emblematico di come l’alto debito stia gravando sul futuro delle giovani generazioni, limitando le loro opportunità”.
In realtà niente di nuovo sotto il sole d’agosto. Tutte questioni note che vengono ripetute periodicamente. Fabio Panetta ha ribadito ciò che è ovvio: “Il problema cruciale rimane la riduzione del debito pubblico in rapporto al prodotto. Un debito elevato rende più onerosi i finanziamenti alle imprese, frenandone la competitività e l’incentivo a investire; espone l’economia italiana ai movimenti erratici dei mercati finanziari. Sottrae risorse alle politiche anticicliche, agli interventi sociali e alle misure in favore dello sviluppo”.
Peccato che in Italia ogni volta che si avvicina una tornata elettorale il problema non è mai la diminuzione del debito, ma sempre la riduzione delle tasse. Siamo un Paese gravato da un’enorme miopia. Scegliamo sempre l’uovo oggi e non ci preoccupiamo se domani ci sarà ancora una gallina in grado di fare le uova.
Oltre al debito pubblico, il Governatore della Banca d’Italia ha indicato un’altra questione importante: “Le proiezioni demografiche indicano che nei prossimi decenni si ridurrà il numero di cittadini europei in età da lavoro e aumenterà il numero degli anziani. Questa dinamica rischia di avere effetti negativi sulla tenuta dei sistemi pensionistici, sul sistema sanitario, sulla propensione a intraprendere e a innovare, sulla sostenibilità dei debiti pubblici”. Pertanto, “anche misure che favoriscano un afflusso di lavoratori stranieri regolari costituiscono una risposta razionale sul piano economico, indipendentemente da valutazioni di altra natura”.
Anche in questo caso si tratta di problematiche evidenti da molto tempo. Persino nell’ultimo Documento Economico Finanziario presentato dal governo è stata evidenziata la correlazione tra incremento dell’immigrazione e la diminuzione del debito pubblico. Salvo poi evitare di mettere in atto le logiche conseguenze operative.
Per fortuna c’è l’Europa, che ogni tanto vigila sul nostro bel Paese. Infatti il 19 giugno scorso la Commissione Europea ha aperto una procedura per deficit eccessivo nei confronti dell’Italia (e di altri sei Paesi), perché il deficit nel 2023 è stato non solo più elevato del limite previsto del 3% (il 7,4% nel caso dell’Italia), ma anche perché la deviazione non è stata considerata “temporanea e limitata”, a differenza di quello che è successo per altri Stati, che pure hanno presentato un deficit superiore alla soglia.
Una volta attivata, la procedura richiede che il Paese si impegni a correggere il disavanzo, adottando azioni significative entro sei mesi. Altrimenti scatteranno sanzioni. In un Paese normale si dovrebbe aprire un confronto critico, per comprendere perché i conti pubblici sono storicamente così negativi. E soprattutto ci si dovrebbe aspettare dalle forze politiche (soprattutto da quelle che attualmente hanno la responsabilità del governo) proposte per ridurre il deficit annuale e il debito complessivo.
Invece, stiamo ascoltando un assordante silenzio. Perché noi italiani alle galline preferiamo gli struzzi, che per controllare le uova mettono la testa sotto la sabbia.