Periodicamente ci viene riproposta la litania del “debito pubblico”. In questi giorni siamo stati informati che quello italiano nel 2024 raggiungerà quota tremila miliardi, dato che è stato commentato dal Governatore della Banca d’Italia, con le relative “preoccupazioni” verso “le generazioni future”, sottolineando come un debito elevato riduca la “competitività delle nostre imprese” ed esponga la nostra economia alle dinamiche dei mercati finanziari.

Ogni volta che l’attenzione viene posta sulla questione debito, dobbiamo fare i conti con una narrazione dell’establishment, la quale si guarda bene dall’andare alle radici dei motivi  per cui nei decenni il debito pubblico italiano è cresciuto in queste proporzioni, o meglio l’analisi si concentra quasi sempre sulla presunta crescita incontrollata della spesa pubblica. Fino a non molto tempo fa dovevamo sentici ripetere il ritornello di un Paese che “aveva vissuto sopra le proprie possibilità”, oggi non più in voga visto che da tempo tutti gli indicatori economici attestano l’aumento delle diseguaglianze e l’impoverimento del cosiddetto “ceto medio”.

Per fortuna in questi anni la saggistica e non solo ha prodotto una serie di contributi che hanno rintuzzato questa narrazione mefitica ed evidenziato come la “logica del debito”, la “debitocrazia”, siano state l’asse portante di quella restaurazione neoliberista, che sarebbe più appropriato definire neocapitalista, che ha caratterizzato le politiche internazionali degli ultimi decenni.

Per quanto riguarda il famoso debito pubblico italiano, come dovrebbe essere noto,  il “peccato originale” è individuabile nel famoso scambio di lettere tra l’allora Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, democristiano, e il governatore di Bankitalia allora in carica Azeglio Ciampi.

In particolare il 12 febbraio 1981 Andreatta propose l’indipendenza della Banca centrale. La richiesta venne accettata, bypassando qualunque passaggio parlamentare e così si diede via a una nuova stagione in linea con ciò che già stava accadendo nel mondo, cioè il trionfo della finanza, l’ascesa del “capitalismo casinò”.

Fino ad allora i titoli di Stato invenduti venivano ricomprati da Bankitalia impedendo che fossero esposti alla speculazione finanziaria. Viceversa con il divorzio sopra descritto e l’autonomia della Banca centrale i titoli furono immessi nel tritacarne dei mercati finanziari e i tassi di interesse da pagare iniziarono a salire a dismisura. L’Italia si allineò con la tendenza generale che vedeva gli Stati dati in pasto alla speculazione con le conseguenze che abbiamo potuto vedere nei decenni successivi: smantellamento delle politiche sociali, indebitamento in crescita costante, crisi finanziarie a volte con i fallimenti della grandi banche, fallimenti dove le momentanee politiche liberiste  hanno lasciato il posto all’esborso dei soldi pubblici per pagare le conseguenze di queste bancarotte.

Poi ci sarebbe anche molto da aggiungere a quella che è stata definita “debitocrazia”, cioè per citare due saggi di Maurizio Lazzarato “La fabbrica dell’uomo indebitato” e “Il governo dell’uomo indebitato”, ma per economia del testo non entriamo in merito alla questione.

Tornando al debito pubblico c’è un altro aspetto cruciale del problema, ossia la sua natura e qui bisogna soffermarsi sulle peculiarità tutte italiche, o comunque da noi piuttosto centrali.

In primis l’evasione fiscale, una parte sicuramente di “necessità”, ma che comunque interessa anche categorie economiche i cui guadagni spesso sono al di sotto di quelli dei dipendenti, o del ceto impiegatizio pubblico. A questo bisognerebbe aggiungere la corruzione, che però ci vede in buona e numerosa compagnia, mentre è una nostra prerogativa “l’industria dei disastri”, cioè le continue tragedie climatiche provocate da una pessima manutenzione del territorio, la sua cementificazione e antropizzazione. Fiumiciattoli, che a causa di eventi alluvionali cresciuti notevolmente di intensità a causa della tropicalizzazione, diventano tanti Nilo travolgendo tutto e tutti. Così come il deficit di politiche di prevenzione antisismica provocano morti e crolli di interi paesi.

Sono tutti elementi che incidono profondamente nella crescita del debito, ma alla base del problema c’è una lunga stagione politica che ha smantellato le conquiste faticosamente ottenute con le lotte degli anni Sessanta e Settanta, per instaurare una vera e propria egemonia capitalistica, di cui le politiche del debito sono un architrave.

Quando si affronta l’argomento dunque bisognerebbe sempre avere come riferimento questo quadro d’insieme.